domenica 30 settembre 2007

Le foto della Polonia

Se qualcuno ti propone una serata per vedere le diapositive delle vacanze ti precipiti subito a inventarti una scusa. Se qualcuno ti propone di vedere le diapositive della Polonia rimani impietrito dal terrore. Se Michela ti propone di vedere per la seconda volta le diapo della Polonia io e Faby accettiamo con gioia e portiamo anche i nostri amici milanesi Elisa e Claudio. Michela non è una fotografa professionista, noi non siamo intenditori di fotografia, ma per trasmettere le emozioni non c'è bisogno di tecnica, per viverle neanche. Auschwitz, Danzica, Cracovia e Varsavia, grazie a lei (che ama fotografare ma non esser fotografata), rimangono nella nostra memoria. Da vedere.

venerdì 28 settembre 2007

Racconto - Fantasmi

Passano in questi corridoi, forse quando vogliono, forse sono sempre qui, e nessuno li vede, o magari li vedono, ma non lo dicono, nessuno comunque che me l’abbia mai detto, tutti si vergognerebbero, forse se lo sono detto solo all’orecchio, a bassa voce per non farsi sentire, dopo aver a lungo riflettuto, lo dico o non lo dico, mi prenderanno per pazzo, o per pazza, forse l’hanno bisbigliato a letto al proprio marito, o alla propria moglie, quando le luci sono spente, e si può credere a tutto, o quasi, la coscienza ha alzato le proprie barriere e si fanno entrare quelle cose che stanno lì e ci girano intorno, e vengono tenute fuori, nella sala d’attesa, il marito l’ha detto alla propria moglie, dopo un po’ di incertezza, a mezza voce, non troppo convinto, quasi che il fatto di averlo detto più piano ne cambiasse il senso, gli desse meno forza, e potesse dire, sì l’ho detto, ma forse non ci siamo capiti bene, non mi sono spiegato, una via d’uscita nel caso in cui l’interlocutore reagisca nel modo che si teme, come quando borbottavamo qualcosa al professore che ci interrogava, in modo che capisse e non capisse, e che se l’avevamo detta grossa, potevamo dire: no, non ha capito, e comunque non tutti i compagni hanno sentito e non c’è stata una risata generale, e dunque alla fine qualcuno avrà detto qualcosa, un collega all’altro collega, un impiegato alla propria compagna di vita, il segreto credo che sia uscito da queste mura, sempre che sia un segreto, e che non sia vero che tutti ne parlano fuorché quando io sono presente. Comunque sia: io li ho visti. Sono due e non uno solo. Passano in questi corridoi e io credo che loro preferiscano sempre camminare, o correre, lungo questi trenta metri, anzi più, invece di chiudersi nelle stanze, che pure sono grandi e potrebbero accoglierli. Nel corridoio almeno c’è molta luce, non ci sono tende a chiuderne l’entrata, solo le inferriate, ma a quelle non ci fanno più caso, li hanno accompagnati in vita e li accompagnano ora in post-vita, o morte, o reincarnazione, o espiazione dei delitti, neanche loro sanno che cos’è, e questo è proprio quello che più li ha fatti arrabbiare, e se potessimo intervistarli direbbero: una vita intera ad aspettare quello che viene dopo e alla fine non sappiamo che cosa sia il dopo, nessuno ce l’ha detto, nessuno ci ha detto se siamo stati condannati o perdonati, se abbiamo fatto bene o male, ci siamo trovati di nuovo qui, nello stesso posto, a fare di nuovo le stesse cose, senza sapere niente del nostro futuro, senza un caronte che ci traghettasse verso un luogo sconosciuto, senza un sanpietro che ci dicesse: prego, questo è il paradiso, oppure no qui no, voi non potete entrare, vi aspetta l’inferno per sempre, due secoli di purgatorio, invece no, sempre qui, lungo questi corridoi a passeggiare, e la grande domanda della vita è rimasta per noi senza risposta, e siamo nel mezzo tra la vita e la non vita, oppure come definirla, non sappiamo neanche noi, se tornassimo indietro come nessuno ha mai fatto non potremmo rivelare nessuna verità. Comunque, che li veda solo io o che lo sappiano tutti, li ho visti correre urlando nel corridoio, insultandosi a vicenda, aggredendosi l’un l’altro, picchiandosi a morte, si potrebbe dire, ma per loro non si può più, perché per loro la morte c’è già stata, e quando li ho visti la prima volta ce n’era uno che pareva il cattivo, e non avrei saputo dire se era il medico o il paziente, e che correva dietro all’altro che sembrava impaurito, come se stesse per morire di nuovo, e io piangevo quasi per quello che scappava, ma poi li ho seguiti, con una scusa sono salito al piano di sopra dove c’è un altro corridoio lungo lungo, e ho visto che quello che prima inseguiva, il cattivo, il medico immaginavo io, quello che prende il cervello e lo sconquassa con le pasticche e l’elettricità e a volte col ferro, era lui che fuggiva terrorizzato, e l’altro minaccioso dietro, e così per ore e ore senza sosta, prima l’uno e poi l’altro, e quando s’acchiappavano giù botte col bastone, e calci, e sputi, e risa di scherno, e quello che era vittima urlava urlava urlava, e si teneva la testa che gli tremava tutta, e scalciava da terra, e non chiedeva neanche più pietà, tanto era inutile, tanto sapeva che l’altro non si sarebbe fermato, avrebbe continuato continuato continuato perché così era da sempre, e quello che era carnefice non si fermava a dire: poi sarò io la vittima, se mi fermo ora forse dopo lui. Poco dopo però magari li vedevo seduti in un angolo appartato l’uno accanto all’altro, che si carezzavano a vicenda, ma non che si chiedessero scusa, no, perché tanto poi sapevano che avrebbero ricominciato, come durante anche dopo la vita, si lenivano le ferite così, scherzando senza più odiarsi, prendendosi in giro, da buoni amici, credimi, avrebbero detto se solo si fossero almeno una volta guardati negli occhi, ti ho procurato dolore ma l’ho fatto per il tuo bene, lo sai no, è mio dovere, se dipendesse da me io. A volte poi li vedo fare la lotta, di solito nei bagni sporchi di gente che è passata di lì e ha lasciato traccia di sé, e non capisco se fanno sul serio o per scherzo, e vorrei dividerli, e chieder loro, no no, non chiedere qualcosa, ma dire e gridare: ma insomma guardate l’uno negli occhi dell’altro, forse sarete diversi. Invece no, non si guardano mai e non si fermano mai, solo certe volte uno dei due si mette in piedi di fronte alla porta d’uscita con gli occhi fissi sul viale alberato, che non capisci se guarda qualcuno o qualcosa, o vede la sua vita di là dalla porta, e sembra quasi che abbia intenzione di aprirla e andar via, per un attimo solo, poi sbatte le palpebre, smuove le spalle, fa uno o due movimenti con la testa per sgranchirsi il collo, si gira a centottantagradi e torna nel corridoio, dove l’aspetta il compagno per ricominciare a correre, urlare, tremare, picchiare.

Per inaugurare...

(mercoledì 26 settembre) Per inaugurare il mio primo blog ho scelto una libreria, la Edison a Firenze; la presentazione di un libro, Italiano, lezioni semiserie, che forse regalerò a qualcuno (stavo pensando ai miei supercapi, che parlano in inglese, ma non credo che lo farò); un giornalista, Beppe Severgnini, che ho letto a lungo e poi abbandonato, preso dalla scrittura della sofferenza. Mentre fuori piove e tutti aspettano Fiorentina-Roma, un gruppo numeroso di libromani sbircia tra le altre teste i capelli metallizzati del Beppe (definizione sua). Molti ridono, qualcuno del pubblico cerca la battuta a tutti i costi, un’ora e mezza passa rapida a sentire l’autore che parla di subordinate, assolutamente sì, straordinario, la regola del p.o.r.c.o., vizi e virtù dell’italiano scritto di oggi. C’è chi, un mio amico, critica il suo stile da attore-showman-venditore. Però rimane fino all’ultimo.