giovedì 25 ottobre 2007

Ron Mueck

Ho scoperto su internet Ron Mueck, artista australiano iperrealista, vive in Inghilterra. Crea opere con la plastica, perlopiù gigantesche. Vedi per esempio qui o qui Se viene in Italia fatemelo sapere!

venerdì 19 ottobre 2007

Sonetto - Tanganica (di Homo Faber)

Tanganica

di Homo Faber

Noce di Tanganica, legno bello,

venato, chiaro, docile al lavoro,

non molto caro, mentre il tuo fratello

noce nostrale costa quanto l’oro.

E questo è il tuo peccato, il tuo rovello,

ché alfin ti trovi in casa di coloro

che non vogliono te, vogliono quello

ch’è d’alto prezzo e quindi dà decoro.

Sotto le mani del lucidatore

macchiato, contraffatto, convertito

cambi fisionomia, cambi colore,

com’io che fin da sempre ho preferito

alla mia voce, ai gesti ed al candore

la menzognera immagine di un mito.

Grazie a Homo Faber per avermi inviato il sonetto. Aspetto i commenti dei lettori! Silvio

mercoledì 17 ottobre 2007

Racconto - Amore contro

Batte forte la pioggia questa sera, picchia sulla mia macchina con i tergicristalli a velocità massima, pulisco il vetro con la mano mentre salgo su per la collina, verso il bosco, la casa colonica sulla sinistra, gli ulivi dappertutto, la strada sale rapida, ancora poche curve, sono in anticipo, come al solito, guarderò l’orologio appena fermo, maledetta la mia ansia di non arrivare in tempo, sempre ad aspettare, gli altri non lo fanno mai per me, respirerò profondamente per togliermi questo brivido, piove sì ma non fa freddo, perché mi trema il corpo allora, avrò il tempo di placare questo respiro di gola, potrò massaggiarmi le guance, gonfiare la pancia, inspirare profondamente, espirare, emettere una voce prima bassa e poi sempre più acuta e sempre più forte, per riuscire a snodare la gola, movimenti di braccia, collo, gambe, difficili in questo metro quadrato ma necessari per cacciar lontano il tremolio della mia carne, pochi attimi e avrò tempo sufficiente per far tutto questo, mentre l’acqua mi aiuta a nascondere la mia figura, poche persone per strada, i più sono a casa immagino, davanti al camino, a tavola con i propri figli e le proprie mogli, non si avventurano come me fin quassù, e comunque penso che se qualcuno che mi conosce mi incrocerà non capirà chi sono, e perché sono qui, spengerò il motore dell’auto e in pochi attimi i vetri saranno appannati dal mio fiato, inaccessibile l’abitacolo alla vista, irraggiungibile all’orecchio, in questa notte di pioggia senza pausa, meglio di così non poteva andare, e allora, se le condizioni sono le migliori che potevo avere perché ancora questo tremito, nessuno mi vedrà, nessuno saprà, come fin dalla prima volta, non commettere atti impuri, ho peccato col pensiero, se lo desideri è come se lo avessi già fatto, fantasie di adolescente, chissà come sarà quando la prima volta, finalmente con una donna, aveva i seni cadenti, la pelle vizza, l’andatura lenta per la fatica di tirarsi dietro il corpo, il sorriso bambino, il desiderio costante di me, sottomessa alle mie voglie, non è per te, non è alla tua altezza, troppo vecchia, troppo brutta, troppo bagascia, è ora di cambiare, sei un uomo dunque ti è concesso ma ora basta, quella no perché, l’altra no perché, mai nessuna all’altezza, mai nessuna come, lo dico per il tuo bene, lei mi amava e io no, e non gliel’ho mai fatto credere pensando che le avrei poi procurato meno dolore, ma non è servito a nulla, questo non ha attenuato la mia colpa, non ha diminuito il mio rimorso, tutto quello che ha fatto lei per me, in cambio di pochi gesti di tenerezza e lunghe ore di sesso, urla nella notte, senza riguardo agli orecchi dei vicini, lo sperma sulla sua pancia per non lasciare ricordi di una storia a scadenza, e poi mi pulisco, lavo via a fondo per spazzar via tutto e ricominciare a sporcare, sempre più sporco, ogni giorno che passa sempre più diverso da quello che ero, ogni giorno un nuovo peccato, una nuova colpa, diversa e ripetuta, ma ecco l’ultima curva, mi infilo nella strada sterrata, nessuno passerà di qui stanotte, nessuno cercherà di entrare dove ora fermo la macchina, spengo il motore, guardo l’orologio, quindici minuti di anticipo, maledetta la mia fretta, devo ancora fare tutti gli esercizi che mi ero proposto di fare, ho tutto il tempo, abbasso lo schienale, è poco per allungare i muscoli fermi dalla tensione della guida difficile sulla strada bagnata, quante volte su questi due sedili, mai come stasera, tutto quello che credevo non avrei mai fatto poi l’ho fatto, quella volta con lei madre e un marito a casa che l’aspetta, non commettere adulterio, non desiderare la donna d’altri, chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore, io l’ho fatto e l’ho raccontato nella stanza della comprensione, nella stanza del non-giudizio, dove si può dire tutto, dove bisogna dire tutto, l’ho detto con un filo di voce, con le lacrime agli occhi, sudando come se ne fossi pentito, già desideroso di rifarlo, senza più lavarmi perché so che non mi pulirò mai, in auto in albergo in spiaggia, senz’altro scopo di liberarmi di questo peso, vedo i fari di un’auto pochi metri sotto a me e subito sento una piccola scossa alla pancia che non se ne va quando l’auto prosegue, sento uno squillo breve, prendo il telefono, un messaggio ricevuto, sono in ritardo qualche minuto, quanti mi hanno scritto queste poche parole o non l’hanno neanche fatto, si dà per certo che sia io ad arrivare per primo, l’attesa più lunga serve per aumentare il desiderio o per farlo sbollire, mi dà più tempo per prepararmi o mi crea altra inquietudine, sento un po’ di rabbia, cerco di pensare che è meglio che mi goda il tempo che passeremo insieme piuttosto che arrabbiarmi per i minuti sprecati, ne abbiamo già pochi, perché ritardare, avessi almeno portato un libro potrei leggerlo per ingannare l’attesa, dunque tiro fuori il cellulare, guardo i messaggi vecchi, ne cancello alcuni, registro chiamate, chiamate senza risposta, cancello, tolgo anche alcune chiamate ricevute, non si sa mai, qualcuno potrebbe scoprire qualcosa, guardo fuori per capire se sta arrivando, come se guardando arrivasse prima quel momento, apro il cruscotto, sistemo, tiro fuori il libretto di istruzioni, sfoglio, richiudo, guardo fuori, respiro, penso, è vero, le sarò riconoscente per sempre, mi ha liberato dall’adolescenza, mi ha fatto diventare uomo, e io non sono riuscito a non farla soffrire, ho chiuso le mani per non accarezzarla, ho teso i muscoli per non affondare nella sua pelle, le ho dato il mio corpo solo per godere, credendo che la mia potenza sarebbe stata per sempre, che il campo di battaglia sarebbe stato per il mio membro solo terreno di vittorie, che non sarebbe mai arrivata la paura e con essa come al solito la sconfitta, chissà che questa paura che sento ora non mi paralizzi anche stavolta, per questo riprendo la respirazione, accendo di nuovo il motore per scaldare la macchina, forse questo mi aiuterà, ancora qualche minuto e saprò chi sono, se è stata solo immaginazione, autoconvincimento, se quello che ero prima non esisterà più, o se quello che verrà ora si sostituirà al vecchio me stesso, o vi si affiancherà, non è possibile dai, io ho sentito, ho goduto, non è stata fantasia finora, ricordo benissimo tutte le volte che ho vissuto, di quella volta tra le fabbriche chiuse, in una strada senza sfondo, altre macchine non lontane, altri corpi che si intrecciano chissà se per mancanza di un letto su cui stare o per urgenza di soddisfare un desiderio, la gioia di sentirmi come gli altri, nudi loro nudi noi, la vedevo dimenarsi per le mie dita dentro di lei, e mi chiedevo come era possibile, insomma lo fa per farmi contento o perché le piace, perché proprio con me e non con qualsiasi altro, e questa era il pensiero, per non parlare dell’anima, quella poi mi seguiva e mi segue ancora, superbia, accidia, lussuria, ira, gola, invidia, avarizia, ma soprattutto lussuria, lussuria, lussuria, non commettere atti impuri, e sei fortunato ad esser nato uomo, altrimenti: zoccola puttana eccetera eccetera, e dunque anche lei che continua a mugolare qui vicino a me, che ci troverà poi, anche lei lo è, e dunque io, sono un ragazzo perbene, lo dicono tutti, ora non più, buon segno, dunque io che sono con lei non dovrei esserci, io, non capisco, sono confuso, so solo che l’uccello sta lì piccolo e molle e per stasera, come tante altre in futuro, non crescerà e non si indurirà, per favore almeno stasera, vorrei che almeno stasera tra queste colline, altrimenti non capirò, voglio capire tutto ora, subito, penso questo mentre continuo a guardare l’orologio, a scrutare la strada di sotto, a scaldare l’abitacolo, passano i minuti ma io sono solo, perché sono qui, perché questa nuova avventura, perché non un libro il divano la televisione, perché, sto davvero cercando sperimentando capendo, o voglio solo andare contro, combattere, distruggere, chi potrà mai dirlo, l’unica verità è che sono qui invece che là, che non fuggo nonostante il terrore soffochi il desiderio, vorrà pur dire qualcosa, vero desiderio o abitudine a mantenere le promesse accada quel che accada, non capisco mai, non so quale sia la causa quale l’effetto, perché, se proprio vuoi rompere e distruggere e uscire dalla strada ordinaria, perché non con lei che attende solo che tu le dica: andiamo, solo un gesto una parola, perché tante domande, perché tanti perché, in questa notte di pioggia, ora è forte forte forte, e sorrido per questo, dopo tanto tempo, ed è bello star qui ad aspettare, e in fondo prima o poi doveva accadere, non vedo l’ora, speriamo che sia come talvolta l’ho immaginato, e in fondo la realtà può essere più piacevole della fantasia, avevo sognato solo donne belle alte bionde giovani perfette, avevo cacciato via i pensieri di me sopra lei sotto lei dentro lei, alla fine mi ha preteso, io le dicevo no no no, ero donna io uomo lei, da questo punto di vista, le ho ceduto quella sera, pensando che chissà che succederà, e invece ho scoperto che anche la bruttezza può dare piacere, il gusto dell’atto fisico in sé e per sé, senza pensiero, senza ragionamento, senza un dopo, quel momento e quell’atto, hic et nunc, e non ho potuto fare a meno di lei, per notti e notti, e giorni e mesi e anni, non ho mai desiderato altro che quest’esercizio fisico e vocale, lei me lo concedeva tutti i giorni e più volte, e io dimenticavo tutto, e le paure, e le regole, e i principi, e la morale, e c’era il mio pene turgido a dimostrarlo, e pensavo che sarebbe durato per sempre, un dato ormai appreso, come un bambino che ha imparato a parlare e non lo dimenticherà più, io invece sì, ho dimenticato tutto, ero presuntuoso e sono stato punito, ora lotto contro questo pensiero, se penso questa cosa essa accadrà, non però quando più lo vorrei, come ora, spero di veder spuntare i fari là sotto ma questi non si materializzano, lo so anch’io, sono razionale, non scaramantico, purtroppo, mi aiuterebbe molto, bisogna che venga, vieni vieni vieni, idea, forse dovrei mandare un messaggio, per ingannare l’attesa, però l’attesa diventerebbe più lunga, in questa notte di pioggia in cui anche i più imprudenti, impegnati ad attraversare pozze d’acqua lunghe e profonde e a combattere la pioggia con l’arma del tergicristallo, neanche i più imprudenti leggono i messaggi guidando, dunque non scrivo ma comincio a spazientirmi, vorrei battere con i pugni chi mi fa aspettare così tanto, tiro su la testa perché senza che me l’aspettassi ho i fari di un’auto che illuminano il mio specchietto, devo essermi distratto guardando il telefonino, che bello, non ho più voglia di picchiare nessuno, via l’ansia dell’attesa, via l’incombenza del tempo, l’auto ha già spento i suoi fari, l’ombra che aspettavo è già quasi al mio sportello, mi allungo per aprirlo, vieni, oh, finalmente, madonna che pioggia, e per fortuna che ora è diminuita, ti sporco la macchina, non importa quel conta è che siamo insieme, guarda, è stata un’attesa infinita, per pochi minuti, beh, ero arrivato prima, ma non è questo, è che avevo voglia di vederti, anch’io, sistemati dai, i vestiti sono bagnati, i capelli anche, e perciò allungo le mani dentro i suoi capelli, e massaggio la testa, c’è silenzio ora, mi piace questo silenzio, con le chiacchiere non combino mai nulla, ho bisogno dell’incertezza del chi parla che facciamo che cosa significa questo vuoto, ho bisogno di questo perché agisca, come quella volta che dopo anni e anni di chiacchiere e momenti di vicinanza e di contatto e di occasioni rimaste tali, quella volta mi sono trovato discosto da lei e c’era silenzio e non c’era nulla di significativo che fosse accaduto, eppure eravamo stati spesso da soli stesi su un letto stretti come fossimo due amanti, o l’una in braccio all’altro, ma non c’era mai stato silenzio, io credo, o non c’eravamo mai guardati silenziosi come quella sera d’estate, in questa stessa macchina, le feci solo una carezza, chissà quante carezze le avevo fatto da quando ci conoscevamo, ma già lei e io avevamo capito che era diverso, infatti lo fu, facemmo l’amore grazie a quel silenzio prolungato, e ora mi viene in mente quella sera mentre gratto la sua testa con le mie mani che si divertono a penetrare nei suoi capelli folti e un po’ bagnati a causa della pioggia che ora ricomincia, senti com’è forte, hai avuto fortuna ad arrivare proprio mentre diminuiva, e ora, e ora, e ora, che facciamo, come funziona, quali sono i passaggi, eppure dovrebbe esser facile, non è la prima volta, ma questa è speciale, questa è diversa, aspetto le sue mosse, meglio che non mi sbilanci, se ne sta lì, continua a sistemarsi, a guardarsi nello specchietto, non tocco più i suoi capelli, ho le mani nelle mani, finalmente si ferma, posso allungare il braccio per accarezzare il suo viso, una carezza prolungata, fissando i suoi occhi, ora vieni, a te la prossima mossa, è un momento importante, è il momento dell’incertezza, che cosa accadrà, peccato gravemente contrario alla castità, non ho tempo di pensare, non ho tempo di sentire il mio fremito, di abbassare la mano per ascoltarmi la pancia, siamo vicini, la mia bocca e la sua, non ce la faccio più a resistere, a resistere al desiderio o all’incertezza o alla paura, qualunque cosa sia, il fuoco è quasi alla finestra e se devo buttarmi di sotto tanto vale che lo faccia ora, prendo il suo viso con tutte e due le mani, metto la sua bocca contro la mia e bacio e bacio e bacio, senza fiato, secondi e secondi e secondi senza pensiero finché non mi stacco per prender fiato e per vedere se è vero, per sentire che è cresciuto, là sotto è cresciuto, c’è solo quello, la voglia, il desiderio, posso superare l’ostacolo, scavalcare la leva del cambio, sono di là, il sedile è gia abbassato, siamo abbracciati, siamo nudi, non mi faccio domande, non c’è tempo in questa frenesia di movimenti, strusciamenti, toccamenti, prende il mio pene, vorrei anch’io, cerco di capire come dovrei spostarmi, e alla fine anch’io lo prendo, per la prima volta, non ho più paura, posso muoverlo per far piacere a lui, checca finocchio frocio, non mi disturba sentire tutto il suo corpo su di me, la sua pelle ruvida, lo bacio e penso, penso a come sono distante, al tempo che è passato, perché tanta strada per arrivare fin qui, perché tanti sogni soffocati, tanti pensieri cacciati via, tanti momenti perduti in una vita così breve, forse già lo amo, non ho niente contro di loro ma se prova ad avvicinarsi, forse dicono così perché hanno paura, hanno paura di scoprire come me, come me stasera, quelli che sono davvero, ora capisco, ho nascosto a me stesso tutta questa roba per tanto tempo, ma in questa notte di pioggia ho ripreso il mio corpo e la mia anima.

domenica 14 ottobre 2007

Acquerino

Il 15 ottobre 2007 è il blog action day sull'ambiente. Non avendo idee per cambiare il mondo l'unica cosa che mi è venuta in mente è questa. 14 ottobre 2007 Stamani io e Faby andiamo a fare una passeggiata, direzione Acquerino, sulla montagna tra le province di Pistoia e Prato, riserva naturale. Troviamo per caso Elisa e Barbara che ci propongono di unirci a loro, a piedi. Macché! troppo faticoso, chilometri e chilometri, ore e ore. Proseguiamo in macchina. Come altre decine e decine di persone, tutti a cercar castagne. La strada è invasa dalle auto. Natura sì, ma solo se il parcheggio è facile. In cima al monte la folla diminuisce e possiamo passeggiare tranquilli. Ma Elisa e Barbara sono state più brave di noi.

lunedì 8 ottobre 2007

Racconto - Apro gli occhi

Apro gli occhi, sono sveglio. Cerco di capire dove sono, guardo verso la finestra alla mia sinistra, ma la finestra non c’è. Non sono a casa mia, non è la mia camera. Guardo in alto, vedo la rete della branda sopra di me. Mi volto: decine di brande a castello. Il muro è grigio, il soffitto è grigio, il pavimento di cemento è grigio. Pochi attimi. Sei e trenta: sveglia. Urla, urla a squarciagola, bòtte, bòtte dappertutto, manate alle ante degli armadietti, calci alle brande. Sveglia! Sveglia! Sveglia! Venti minuti: salta giù dal letto, apri l’armadietto, prendi le tue cose, corri in bagno, piscia, làvati, fatti la barba, torna alla branda, metti la mimetica, i calzini, gli anfibi, la cerata, disfa il letto, fai il cubo. Un ragazzetto, grossomodo la mia età, venti centimetri meno, si avvicina, lo butta in aria: rifallo. Si accorge di un altro, un tipo alto, biondo e molto lento che cincischia con le scarpe. Gli corre incontro. Urla, insulti, bestemmie. Do un’occhiata alla scena, poi riprendo. Fai il cubo, controlla i vestiti, corri, corri, corri, giù dalle scale, tutti in fila. Muoversi cazzo, muoversi rincoglioniti. Sotto i portici fa freddo, nel piazzale c’è la nebbia. Sono con i miei amici fraterni, amici da lungo tempo, due settimane ormai. Soffro come loro, piango come loro, svengo come loro. Vai in fila per la colazione, tieni la gavetta in mano. Un po’ di latte, una piccola pasta confezionata. Mangia rapido, rimettiti in fila, torna nelle camerate. Urla, insulti, bestemmie.

Qualche minuto di attesa. Prendo la mia borsetta: il dentifricio, lo spazzolino, il sapone da barba, il rasoio. Vado al cesso, ma non devo pisciare. Appoggio le mie cose in terra. Sento ancora le urla fuori. Chiudo la porta. Mi fermo un attimo, guardo in alto, chiudo gli occhi, respiro profondamente. Mi chino, prendo il rasoio, mi rialzo, slaccio il bottone della manica sinistra. Guardo il polso, appoggio il rasoio sopra, incido piano, da sinistra verso destra. Non tremo, posso continuare. Ruoto la lametta, parto dalla base del polso, squarcio la vena incidendo dal basso verso l’alto, più a fondo possibile. Il sangue sgorga, abbondante. Bravo, Valerio. Ancora un momento, inspiro, espiro. Alzo la testa, stringo il rasoio, lo appoggio sulla parte sinistra del collo, taglio velocemente da sinistra verso destra, più che posso. Lascio cadere il braccio, apro la mano, sento cadere il rasoio. Scivolo pian piano a terra. Semisteso, attendo. Ancora urla fuori, ora sento che si allontanano. Il sangue sgorga, sgorga, sgorga. Si spande sulla cerata, poi sui pantaloni. Ora è in terra. Silenzio, sono solo. Penso a chi sta fuori, in fila, in marcia. Un-due, un-due, march! Urla, insulti, bestemmie. Attendo. Forse non sono stato abbastanza bravo, dovevo andare più a fondo. Ma ora non ce la faccio a riprendere la lametta. Comincio a sentire torpore, perdo le forze, mi si annebbia la mente. Quanto dura? Speriamo di non soffrire, vorrei svenire. Sento qualche passo nel corridoio, adesso qualcuno è entrato nel bagno. Forse sta controllando, dovrei tenere la maniglia. Non ce la faccio, è troppo lontana. Ecco, se ne va. Quanto sangue, non dovrebbe mancare molto. Mamma, non piangere, scusa. Non ce la facevo più. Ho tentato in tutti i modi, ma è un peso troppo grande per me. Scusa, sorellona Scusate tutti, se vi ho dato questo dolore. Provo ad ascoltare fuori, non percepisco niente. Spero che finisca presto. Dovrei svenire, comincio a perdere i sensi. Ancora gli anfibi nel corridoio, forse entrano. Rumori. Sono qui. Forse è troppo tardi. Eccolo. Apre la porta, vedo solo le gambe. Silenzio. Scalpiccio di anfibi. Che cazzo fa? Venitemi a prendere, sto morendo. Urla, urla forti nel corridoio. Oh! Oh! Un gran casino. Provo ad alzare la testa, ce la faccio ancora. Incrocio gli occhi col mio caporale, non ho la forza di pensare a quello che vogliono dire i suoi occhi, i miei occhi. Mi ha urlato in viso fino a pochi minuti fa. Mi lascio andare giù, disteso del tutto. Mi trascinano di schiena. Sento ancora urla e imprecazioni. Sono fuori del cesso, mi tirano ancora. Mi mettono a sedere in terra, dev’esserci il caporale dietro me. Signore, mi tenga lei. Guardo le strisce di sangue lunghe un paio di metri. Cazzo, non pensavo di restare nel mezzo. O di qui o di là. Non voglio soffrire, quanto ci mettono? Ancora urla. Perché non svengo? Resisto un altro po’. Ancora rumore di anfibi, più forte. Non riesco a tirar su la testa, ma alzo gli occhi e vedo un tipo in mimetica, la fascia con la croce rossa al braccio e una valigetta in mano. Mollo tutto, mi faccio tenere dal caporale. Come ti chiami? Non rispondo, non ce la farei neanche, che importa ormai? Arriva il dottore. Ce la faccio a vedere che mi stanno fasciando tutto, bloccano il sangue, forse non ce l’ho fatta. Mi stendono in terra, mi spostano, mi sballottano. Sono stanco, voglio dormire.

mercoledì 3 ottobre 2007

Racconto - Una madre, un bambino

Una madre, un bambino

Piango da quando sono qui, sarà per questo, avrò detto qualcosa di sbagliato, una delle tante cose che tutti sanno e io no, ho parlato senza conoscere quello che tutti conoscono, come fai a non saperlo, sei proprio piccolo, perché tutti sembrano sapere tutto e a me non dicono niente, o forse hanno scoperto qualcosa che ho fatto, forse la pipì addosso, erano poche gocce, le devono aver viste, qualcosa è passato sopra i pantaloni, ma no, è perché ho pianto, perché piango sempre, perché non voglio star qui, voglio tornare a casa, mio fratello mi ha lasciato solo davanti a questo portone, non arrivo alla maniglia per aprire, sono troppo piccolo, che cosa posso fare, provo a passare di dietro, attraverso il grande giardino, dove giochiamo o piangiamo o facciamo a botte, non c’è nessuno, è vuoto, mi hanno abbandonato nel vuoto, senza calore, senza abbracci, senza un corpo che mi accolga e mi contenga e plachi la mia paura di restare solo, torno al portone di ingresso, salgo tutti gli scalini alti alti, mi siedo, piango, che mi succederà, tornerà la mamma, la suora ha sentito, mi ha aperto, finalmente sono entrato nel posto che più odio, un rifugio temporaneo, un sollievo momentaneo, ma tutti hanno udito, tutti hanno visto, piango ogni giorno, ogni giorno mi portano qui e qui mi abbandonano, io non voglio, e queste bambine, ora ho capito, mi prendono in giro perché piango, perché sono piccolo, tutte intorno a me, saranno dieci, un milione, mille, tutte col dito puntato, tutte che ridono, in cerchio attorno a me, ho il muro alle spalle, non posso fuggire, non potrò mai fuggire, anche da grande, mi irrideranno scherniranno sbeffeggeranno, non potrò avvicinarle, non potrò mai toccarle, chieder loro nulla, per anni e anni e anni non parlerò con loro, non chiederò neanche una penna in prestito, una domanda qualsiasi, una frase come dico tutti i giorni, semplice semplice, anche se sarò innamorato di loro, anche se passerò tutto il giorno con lei, che mi piace tanto, mattina e pomeriggio, anni e anni e non dirle mai niente, non ho la forza neanche di piangere, eppure tutto il giorno non ho fatto altro, ora centomila bambine mi si stringono intorno in cerchio, un cerchio che non posso oltrepassare, quando finirà questa persecuzione, quando verrà la suora a spezzare il cerchio, forse le ha mandate lei, sono tutte contro di me perché lo ha voluto lei, non finirà mai, anche da grande sarà così, non mi state addosso, andate via andate via andate via, mi fate paura, che vi ho fatto di male, che mi succederà, sarà sempre così, il dito puntato contro, l’indice che si muove, il sorriso cattivo, io rosso, non potrò mai possederle, io le voglio ma loro si prendono gioco di me, voglio una madre che mi prenda, che non mi abbandoni ogni giorno per non tornare mai più, dopo ore e ore e ore passate dentro questo cerchio, alla fine qualcosa è successo, non posso ricordare che cosa, sarebbe troppo doloroso, però mi hanno liberato, dopo un infinito tempo di abbandono, qualcuno mi ha riportato a riva, è sera, la tavola è ancora apparecchiata, siamo tutti sazi, mi stendo sopra il corpo di mia madre per prendere tutto il calore del suo ventre e del suo seno, sognando di poter restare così per tutta la sera e tutta la notte e tutto il giorno e tutta la sera e tutta la notte e tutto il giorno.

Cerco mia madre nella carne dura di un donnone dall’età sconosciuta, dai modi burberi, sorda a tutte le mie parole, a ogni mio sguardo, guardami, non vedi, sono stato abbandonato in un mondo troppo vuoto per me, non mi basta un corpo da penetrare, ho bisogno di uno sguardo tenero, di una mano grande che lisci i miei capelli bambini, di un posto morbido dove poggiare la mia testa distrutta dai pensieri del giorno, la mia mente bisognosa di riposo dalla fatica quotidiana del vivere la paura. Le pareti della sua stanza sono grigie, i suoni della sua bocca sono volgari, il suo sorriso è giallo. Fuggo via. Cerco mia madre in una donna dagli occhi lucidi, il sorriso all’insù, il portamento eretto, le parole gentili, i discorsi garbati, i principi buoni, i modi corretti, le chiedo in forma ufficiale, lettera, dichiarazione, firma, busta, indirizzo, timbro, cassetta, le chiedo di farmi dimenticare e ricordare l’abbraccio di mia madre e il calore del suo corpo, le chiedo di sostituirsi a lei, le lascio sulla carta anche le gocce di lacrime uscite dei miei occhi perché capisca meglio la forza del mio desiderio, al mattino la vedo inginocchiarsi e abbassare lo sguardo, il viso verso terra in segno di sottomissione, la fronte corrugata a mostrare l’intensità del suo sentimento, la vedo così in ginocchio di fronte alla croce di Cristo, alla sera la vedo inginocchiarsi e abbassare lo sguardo sul mio pene in cerca di liberazione dalla paura di restare solo, mi sfinisco a chiedermi perché tante anime in uno stesso corpo, chi è questa donna che ora, chiusi in un appartamento silenzioso di una città silenziosa, non vuole più darmi il piacere della carne, io chiedo solo questo, non voglio né tenerezza né pace né promesse né amore, voglio solo un pezzo di corpo con il quale ottenere piacere fisico, siamo fatti di corpo, solo di corpo, ora dunque fermati e lasciami soddisfare il mio appetito, non urlare, potrebbero sentirci, è troppo tardi per dire no. Cerco mia madre nel seno florido di una ragazza di cui non capisco la lingua, e mi chiedo quanti milioni di parole devo ascoltare, senza che neanche una riesca a colmare il vuoto di quel giardino, e neanche due occhi nei miei occhi per dirmi: vieni, ecco, puoi stenderti su di me, so di che cosa hai bisogno, lei che non può parlarmi l’ha capito, forse perché non potendolo fare con la voce mi ha parlato con gli occhi e con il corpo, gli unici che possono davvero dirmi qualcosa, la bocca no, quella non può farlo, per una notte mi accoglie senza una parola sopra il suo ventre e il suo seno e la sua carne sempre abbondante come tutte le carni che emanano calore. Ma è solo una notte. Cerco mia madre in una donna che ha bisogno di un figlio e mi tira dentro il suo corpo gelido e mi tiene stretto per non farmi fuggire e vuole che io la tenga stretta stretta, non vuole sesso, per carità, dice lei, troppa la sua età, poca la mia, dice lei, potrei essere tua madre, dice lei, che cosa dice, che cosa vuole, mi chiedo io, si parla per parlare a se stessi o agli altri, e me lo chiede a gran voce, questo abbraccio, davanti a tutti, non sa che non si può chiedere un abbraccio, si può solo aspettare che ce lo diano, e anch’io non lo sapevo questo, chiedevo chiedevo chiedevo, mi prostravo ai piedi delle donne in cerca del loro abbraccio, solo quando ho smesso di chiedere ho potuto ricevere, lei invece continua a chiedere perché non ha ancora trovato suo figlio, lo cerca in me e io in lei cerco mia madre, ma non può continuare, l’abbraccio di una madre a suo figlio è per sempre, prima o poi questo abbraccio, con questa donna, si dissolverà, diventerà solo ricordo vuoto. Cerco mia madre in una donna che mi prende e mi lascia, mi prende e mi lascia, mi stringe forte e non vuole esser stretta, una donna dal corpo scisso a metà che cerca le mie parti intime, le sfiora e le fugge, mi teme, teme le mie mani quanto la mia mente, ha paura che la denudi della sua corazza di certezze e razionalità, forse non sa se mi vuole, certo non capisce se la voglio, ma io, io chi è che non voglio, sempre in cerca di quel corpo e di quel calore, ogni donna è occasione buona per aiutarmi a ricordare, posso prendere ogni corpo e usarlo per il mio gioco di bambino, posso lasciarlo senza accorgermi di averlo fatto. Cerco mia madre anche in una piccola figura di donna che mi ascolta ogni giorno diluviare le parole come non ho mai fatto da quando sono nato, credendo così anch’io di poter soffocare il desiderio parlando parlando parlando, senza mai chiedere quello di cui ho bisogno, ogni giorno a dire: lo farò domani, ogni giorno a pensare: in futuro verrà il momento buono, ogni momento a credere che quello dopo sarà migliore, così la tengo per le gambe o per le spalle o per i fianchi o per qualsiasi altra parte del corpo come se fosse mia, ma nonostante tutte queste parole e questa intimità non smetto mai di parlare, non prendo mai le distanze per dire: ecco, siamo qui, io e te, uniamoci, perché, è vero, bisogna prendere le distanze per saltare negli altri, e io continuo a rimandare il momento della rincorsa, e quello del salto, e mica solo con lei, no, mica solo con lei, con un’infinità di donne, forse per paura che il salto sia vano o doloroso o senza senso, così le sto addosso come se le fossi già dentro, ma addosso è diverso da dentro, ed è andata a finire che vicino vicino è diventato lontano, ora lei non c’è più, l’ho rivista solo stasera in una signora che aveva una qualche parvenza di lei, forse le narici larghe, le guance gonfie, la gambe carnose. Cerco mia madre chiuso in migliaia di pagine di carta, la cerco in posti lontani centinaia di chilometri, in persone che non sanno chi sono, che non dicono mamma per chiamare la propria madre, la cerco il più lontano possibile, perché vicino vuol dire sofferenza, dolore, sconforto, fuggo dal passato, voglio lasciarlo a terra quando mi alzo in volo per sognare, ma il passato mi segue anche lì, non riesco a farlo sfracellare scaricandolo dall’alto, quando si sogna la realtà dovrebbe sospendersi e invece no, anche lì suore, bambine, pianti. Fino a che, stanco di peregrinare in cerca di, stanco di lottare per, stanco stanco stanco, mi fermo, e tutto quello che si avvicina lo allontano per non illudermi e poi esser deluso. Una donna alta e bella e formosa e interessante e, mi si avvicina e mi dice, e mi chiede, e mi propone, e si propone, e io, e io, e io lì a pensare, la bocca ferma, gli occhi fermi, le mani ferme, perché tutta questa fatica immensa, perché ogni volta ricominciare, perché provare ancora, non servirà a niente, non voglio il tuo grande seno, le tue labbra carnose, le tue gambe perfette, voglio chiudermi nella camera di quando ero bambino, stendere i muscoli flaccidi, dormire senza sosta alla ricerca del nulla. Ma il nulla, neanche quello mi viene incontro, dunque mi alzo sonnambulando in un mondo di svegli, e ora non ricordo più che cosa stavo cercando, non ricordo perché mi sono alzato, so solo che devo mangiare, bere, dormire, respirare, null’altro, niente più di quello che mi faccia sopravvivere, ora non penso più, mangio, bevo, dormo, respiro, non ho tempo di farmi domande né penso a quando me le facevo, non ansimo alla ricerca di quello che ormai ho dimenticato. Mi sono illuso di trovare mia madre in tutte le donne con le quali ho parlato, ho camminato a fianco, ho condiviso la mia nudità, o anche solo immaginato di farlo, ma ho dovuto vagare nel tempo e nello spazio, vagare vagare vagare, per poterlo trovare in un’altra donna, per colmare il vuoto di un giardino senza madre, ho dovuto salire centinaia di scale altissime, sedermi a piangere per ore e ore e ore, farmi aprire decine di porte da donne senza un ventre caldo, ho dovuto odiare questa donna per essermi sfuggita per un tempo senza fine, perché ha tentato di fuggire dal mio abbraccio irrespirabile, ho dovuto penetrare pareti e pareti e pareti con il mio urlo poderoso, sbattere oggetti con la violenza dei pazzi, deturpare il mio volto con le rughe della sofferenza, i miei capelli con il colore della vecchiaia, sconquassare tutti gli affetti di me bambino pur di ritrovarlo, pur di riempire il vuoto di un abbraccio caldo di una madre e di suo figlio.

lunedì 1 ottobre 2007

103

Ieri, 29 settembre, nonna Beppa ha compiuto 103 anni. Cammina e mangia da sola, sfoglia Vanity fair, mette a posto (secondo la sua logica) e parla con la televisione . Ma non pretendete di farle fare qualcosa: potrebbe darvi uno sganassone. Per il suo carattere è soprannominata “la nonna da guardia”.

Maldipancia

Ci sono ancora articoli che mi fanno male. Male alla pancia. Inutili due decenni passati a leggere e vedere di tutto. Le macchine arrivano alla rotonda all'entrata del parco. Un uomo dentro l'auto abbassa il finestrino. Un ragazzo sulla strada, maggiorenne, tratta il prezzo. Il ragazzo gli dice dove parcheggiare, in una zona buia. Poco più in là un minorenne segue la macchina e sale dentro. Dopo un quarto d'ora il lavoro è finito. Una parte dei soldi rimane a lui, il resto a qualcun'altro. I ragazzini sono rumeni e slavi. I bambini sono rom. Parco delle Cascine, Firenze, Italia.