venerdì 30 maggio 2008

Alla ricerca dei nostri avi / 2

(seconda parte)

L’archivio dell’arcivescovado di Lucca è tra i più antichi al mondo. Molti documenti riguardano i longobardi di prima del Mille. All’orario di apertura entriamo insieme ad Andrea, l’esperto che ci ha aiutato nelle ricerche a Pescia e che si è offerto di darci una mano. Scopriamo che non lavora a Pescia ma è un libero professionista che fa ricerche per alcuni istituti di araldica e per privati. Ci siamo trasferiti a Lucca perché un Giovanni figlio di Piero d’Ulivo era della parrocchia di Boveglio, che fa parte della diocesi di Lucca. L’atmosfera è diversa rispetto all’archivio di stato di Pescia. Là avevamo trovato un archivista-muro e una signora-perfetta del gabinetto Viesseux in attesa del Professor Altisonante. Qua abbiamo due ragazze in infradito e una signora sorridente. Accanto a noi una laureanda consulta lunghissimi fogli secolari e trascrive sul computer i suoi appunti. Di fronte, un signore di mezza età con golf e cravatta cincischia col cellulare. E poi con Andrea siamo meno timorosi anche in questi luoghi. Anche lui: non si direbbe un animale da archivio. Jeans e scarpe da ginnastica, è un ragazzo alla mano. Me lo sarei immaginato come: precisino, pazientissimo, impostato. Invece s’arrabatta su quei documenti del ‘500 quasi fosse un gioco da bambini, s’arrabbia quando qualcosa non va per il verso giusto, la sua faccia cambia colore, suda, esulta per un certificato scovato in mezzo ad altre decine, stringendo i pugni come per un gol della propria squadra. Noi, più che altro, stiamo lì e guardiamo: il nostro aiuto diventa sempre meno prezioso. Non riusciamo a trovar nulla mentre lui trascrive tutti i dati relativi agli Olivo, Ulivo, Piero, Giovanni fino alla metà del secolo diciassettesimo. Che siano dei nostri avi o di rami collaterali non importa: ci ragionerà a posteriori. Non ci sono più i cognomi, si scrive solo in latino e la cosa si fa difficile. Andrea deve trovare più agganci possibile e più conferme possibili. Flavio prova a fermarlo: pausa caffè? Macché, vuol continuare. Alla fine cede e usciamo. (Lucca, una città quieta nella quale si può passeggiare in mezzo alla strada: da non credere). Riprendiamo. Finalmente! (forse). Certificato di battesimo: Olivo figlio di Vincenti figlio di Olivo. Chiamato così, probabilmente, perché nato la domenica delle palme. Tutto da verificare: ci vuole tempo e abilità, bisogna indagare risalendo indietro nel tempo ma anche scrutando i rami laterali alla ricerca di conferme o agganci. (E non ci sono solo le curie: potremmo aver bisogno degli archivi civili) Perciò torniamo a Pescia all’arcivescovado e, sempre guidati dall’ottimo Andrea, ci immergiamo nei fascicoli dei morti, anno per anno, tutti i D’Ulivo: ancora foto, appunti, schemi, ipotesi, calcoli, dubbi. La prossima settimana un altro appuntamento.

Ascendenze dirette:

  • Silvio (1969) e Flavio (1966)
  • Rodolfo (1939)
  • Mario Renato Giovanni(1906)
  • Candido Primo Giuseppe (1881)
  • Giovanni Emilio Eduardo (1836)
  • Candido Giovanni(1812)
  • Anton Francesco (1788)
  • Vincenzo (1748)
  • Piero (1715)
  • Giovanni (16..)
  • Piero (16..)
  • Ulivo?

mercoledì 28 maggio 2008

La poltroncina del trans - terza e ultima parte (anonimo)

Nessuno avrebbe scambiato per una donna l’uomo del portone. Nemmeno per una donna brutta. Era un uomo mascherato, uno scherzo serio, tragico, immobile che aspettava. Durante il giorno, nel quartiere, non avevo mai incontrato nessuno che potesse assomigliare a lui. La notte mi affacciavo alla finestra e mi sporgevo un po’ per intravedere i contorni mossi delle stoffe illuminate dalla luce dell’androne, guardavo il silenzio della strada deserta dove entrava solo chi stava tornando casa o chi cercava un riparo per pisciare. Una sera, accanto alla porta dell’officina, l’uomo stava seduto su una sedia bassa completamente ricoperta dalla gonna lunga, con le gambe accavallate stringeva in grembo una borsetta e aveva in mano una sigaretta accesa. La sedia occupava quasi tutta la larghezza del marciapiede, io gli passai davanti spostandomi nella strada, lo guardai con la coda dell’occhio e mi sembrò che la bocca fosse più distesa. La mattina dopo, nel portone aperto, intravidi accanto alle biciclette, una poltroncina bassa e rossa. Entrai, facevo finta di aggiustarmi le calze e intanto guardavo da vicino la poltroncina. Aveva la seduta ovale allungata su zampe sottili di ferro tenute fra loro da ferri incrociati. Lo schienale ovale era sorretto da due ferri saldati alla base e uniti dal solito incrocio, il rivestimento era in finta pelle. Sembrava un trono a cui erano state segate le gambe. Avevo visto due poltrone simili in un negozio che vendeva mobili e oggetti anni sessanta, due gemelline rosse molto costose, sotto ad una abat-jour da terra con cappello plissettato. Uno sfizio caro che non potevo permettermi. Lui aveva lasciato la poltroncina nell’ingresso, sicuro che non l’avrebbe presa nessuno. E cominciai a pensare a come fare per portarla via. Mi dispiaceva che lui passasse le sue serate in piedi, ma avrei potuto sostituire la sedia o offrirgli dei soldi, o magari chiedergliela e aspettare la risposta. Spesso però le persone si attaccano alle cose proprio quando gli altri gliele chiedono. Non volevo portarla via di giorno, qualcuno sicuramente mi avrebbe visto. Per alcune settimane, la notte passai davanti a lui seduto nella stessa posizione con la gonna che scendeva a ricoprire la sedia. Sempre immobile fumava, la stessa rosa tra i capelli, dondolava un piede e buttava fuori il fumo facendo gli anelli. Un giovedì mattina alle quattro, stavo tornando a casa dopo una festa, lui non era davanti al portone, sbirciai nell’androne e intravidi la sagoma della poltroncina. Non passava nessuno, tutte le finestre sulla strada erano buie, guardai a destra e a sinistra e vidi, vicino al cassonetto della spazzatura in fondo alla strada, una sedia. Andai a prenderla. Sembrava stabile sulle zampe di metallo cromato, mi sedetti sulla base di formica, mi appoggiai allo schienale e mi sembrò veramente comoda. Era un po’ meno elegante della poltroncina, ma poteva andare. La sollevai facilmente, cercai in borsa un fazzoletto di carta, la spolverai e andai verso il portone. Entrai, appoggiai la sedia accanto a una pianta secca e uscii con la poltroncina. Mi avviai veloce verso la mia porta, cercai la chiave, aprii e cominciai a salire le scale facendo attenzione a non sbattere nel muro. Entrai e subito in bagno la infilai nella doccia, misi un po’ di bagnoschiuma su una spugna e la insaponai. Poi la risciacquai, la asciugai e la misi in camera mia vicino al letto al posto di un orrendo comodino. La mattina dopo quando scesi per prendere la bicicletta, mi accorsi che aveva una gomma bucata. Con le mani sul manubrio, a piedi, andai dal meccanico e lui non rispose al mio buongiorno, continuò a sbuffare con la faccia vicina ai pedali di una bicicletta che pendeva dal soffitto mentre armeggiava intorno alla catena. - Fino a domani non posso metterci le mani – mi disse e io rimasi un attimo soprappensiero, con la bicicletta in mano, incerta se lasciarla o cercare subito un’altra officina. Lui con la pinza a mezz’aria mi guardò, strizzò gli occhi, li sbatté un paio di volte e mi disse di mettere la bicicletta in fondo al negozio. E fu un attimo. Incrociai quello sguardo, mi sembrò che il parrucchino fosse leggermente storto, guardai il naso adunco, la bocca tirata e vidi la faccia notturna del travestito. Era il luogo che mi suggestionava? Decisi di lasciare la bicicletta e chiesi per favore di ripararla al più presto - Se ho detto domattina, è domattina –rispose– alle undici. Uscii cercando di visualizzare insieme la faccia del meccanico e quella del travestito. Impossibile che fossero la stessa persona. Quando tornai a casa alle una, sul pianerottolo incontrai la signora anziana che abitava a pianterreno. - Conosce gli inquilini del palazzo più avanti, quello con il gatto rosso alla finestra? – domandai. - E chi li conosce quelli, vanno e vengono, cambiano di continuo, c’è un via vai di neri, di gialli, di donne, di uomini, di metà e metà. - Ma lei sa se in un appartamento abita il meccanico di biciclette? - E chi lo sa? Lo chieda a quelli del gatto, stanno lì da tanti anni e anche loro hanno la loro croce. A chi si riferiva con “anche”? A se stessa? A me? Al mondo? Mi sembrava che volesse raccontare qualcosa ed io ero curiosa. - Che croce scusi? - Sarebbe lunga, ho la pentola sul fuoco, magari un’altra volta. Provi a suonare il campanello e se rispondono - perché non sempre rispondono - gli chieda del meccanico. La ringraziai ed entrai in casa. La poltroncina vicino al letto non mi piaceva. Decisi di metterla in mezzo alla stanza, davanti alla televisione. La seduta ovale con gli estremi un po’ rialzati, chiedeva a chi la guardava di accomodarsi e lo schienale, con la stessa forma, accoglieva le spalle come uno scialle premuroso. Sembrava formata da due tavole da surf rosse arrotondate e incavate, montate su un intreccio di ferri neri. La sera rimasi a casa, invitai Carmen e Giuditta a cena e tutte e due si sedettero sulla poltroncina, dissero che era comoda ma strana, che sembrava più un oggetto da guardare che da usare, che una vecchia zia di una delle due, ne aveva buttata proprio una uguale, che occupava un po’ troppo spazio nel monolocale già pieno di tutto. Pensai al loro appartamento in affitto, zeppo di mobili scuri e pesanti lasciati dalla proprietaria, ai centrini che dovevano rimanere al loro posto, ai fiori finti polverosi che nessuno doveva spostare. A mezzanotte mi affacciai alla finestra e intravidi lo svolazzo della gonna lungo lo stipite del portone. Lui era là, in piedi e aspettava. Mi sentii in colpa, sarei voluta scendere con la poltroncina, avrei voluto offrirgliela come un dono, come se non gli fosse mai appartenuta. Rimasi invece incollata alla finestra per molto tempo, osservando i suoi impercettibili cambiamenti di posizione, la borsetta che sporgeva, il puntino di fuoco della sigaretta. Forse la sedia non era stata di suo gradimento. Poi un uomo si fermò davanti a lui, mi sembrò di sentire un rumore di parole, vidi la fiammella di un accendino e sparirono all’interno. La mattina andai presto all’università e alle undici non ritirai la bicicletta. Avevo fatto un piano per sapere dove abitasse il meccanico. Passai davanti all’officina alle una, la saracinesca era abbassata, davanti al negozio non c’era nessuno. Il gatto rosso non era sul davanzale e la finestra era socchiusa. Entrai nell’androne e seguii l’odore di cavolo bollito fino alla porta dell’appartamento a pianterreno. Suonai. Una sedia venne trascinata sul pavimento, qualcosa di metallico cadde, una voce rauca di uomo gridò – Apri! Una voce di donna chiese - Chi è?- La porta rimase chiusa. - Non mi conosce signora, abito appena due portoni più avanti, sto al sette – risposi. - E cosa vuoi? – la voce sembrava stanca. - Se mi apre glielo dico, le giuro che non vendo nulla. La donna aprì e mi apparve un viso flaccido con due occhi rotondi ipertiroidei sotto un ciuffo di capelli grigi spettinati. Fumava. – Mi scusi, sa qual è il cognome del meccanico sul campanello, dovrei ritirare subito la bicicletta, il negozio è chiuso, scusi il disturbo ma… - Qui non ci sono meccanici, quello delle biciclette non sta qui. - E in questa zona viene solo per lavorare? - Ma che cazzo di domande mi fai? Cosa ne so io del meccanico! E mi sbatté la porta in faccia. Ecco ora sapevo. Il travestito che sostava gran parte della notte sul marciapiede non era il meccanico che di giorno riparava le biciclette. Entrai in casa turbata. Avevo davvero creduto che il meccanico si travestisse di notte e “battesse” tranquillamente sulla porta di casa? E abitando da un'altra parte, la notte sarebbe potuto tornare su quel portone? E i rari clienti dove li portava? Nell’androne? La mia mente ricamava troppo spesso su tessuti che per loro natura dovevano rimanere sobri, senza fronzoli. Aveva ragione mio padre, la fantasia mi distoglieva dalle cose importanti. Faceva caldo, aprii la finestra, la strada era deserta, arrivavano rumori di posate sbattute sui piatti, un cozzare di pentole dentro a un lavandino, qualcuno stava gridando al telefono, dall’ appartamento di sopra usciva la voce di Julio Iglesias, “pensami tanto, tanto intensamente…” la canzone che ascoltava spesso mia nonna. Il mio libro di tossicologia analitica era chiuso sulla scrivana, io mi sedetti sulla poltroncina e accesi la televisione. Più tardi sarei andata a trovare la signora del piano di sotto, le avrei portato una scatola di cioccolatini e mi avrebbe raccontato con calma, la storia dei padroni del gatto rosso e della loro croce.

lunedì 26 maggio 2008

La poltroncina del trans - seconda parte (anonimo)

La mia bicicletta era vecchia e quando aveva bisogno di una riparazione, la portavo in una officina a due passi da casa anche se il meccanico era scorbutico e mi sembrava di dargli fastidio. Se la gomma era bucata, scuoteva il capo, sbuffava, diceva che i freni non funzionavano, il sellino era da cambiare, la catena stava per rompersi, insomma trovava sempre un pretesto per farmi spendere qualcosa in più. L’uomo sembrava una gruccia dentro una tuta blu sformata, era alto e magro, il naso un po’ adunco, avrà avuto quaranta anni e portava un parrucchino così parrucchino che pareva un copricapo di carnevale. L’officina era piena di biciclette da riparare, alcune sistemate e rimesse a nuovo esponevano sul manubrio il cartello “vendesi” e lui me ne offriva una ogni volta che gli portavo la mia. Il meccanico aveva un tic, ogni tanto stringeva gli occhi e li riapriva, come qualcuno che si sveglia da un brutto sogno. Quando uscivo dovevo passare per forza davanti all’officina dove il solito gruppetto di sfaccendati sbraitava su calci d’angolo e rigori, biciclette e giri d’Italia, maglie rosa e maglie gialle. Al mio passaggio il volume delle voci si abbassava e le parole sembravano avere solo la coda o l’ inizio, un “che cu”, un “ona” o un “ciu” o un “ti fa”, un “lo”. Accanto all’officina, che non aveva nemmeno un’insegna, c’era una porta sgangherata aperta su un androne dove si intravedevano biciclette appoggiate al muro e qualche vaso di piante rinsecchite. Sui campanelli, qualche nome italiano inciso nell’ottone e nomi stranieri scritti a penna su striscioline di carta attaccate con nastro adesivo. Sul davanzale di una finestra a pianterreno, un gatto rosso stava spesso dietro le sbarre. Se l’officina era chiusa e non c’era il solito capannello, mi fermavo a giocare con il gatto che infilava il muso fra i riccioli di ferro battuto e allungava le zampe sfoderando le unghie. Alle finestre dei piani superiori, i panni stesi sventolavano in barba a un’ordinanza comunale che prescriveva di non ingombrare le facciate del centro storico. La notte, nel vano del portone aperto, vedevo spesso un uomo in piedi, alto, vestito da donna, il viso smunto, il naso adunco, le labbra sottili dipinte, una rosa rossa fra i capelli neri e lunghi, le scarpe con il tacco. Stava immobile guardando dritto, sembrava che niente lo potesse distrarre dal suo essere li ad aspettare. La prima volta che lo avevo visto, stavo camminando imbacuccata in un cappuccio perché tirava vento, guardavo in basso e improvvisamente me lo ero trovato sulla destra quasi a sfiorarlo. Avevo sobbalzato e mi era sfuggito un - Oh! Mi scusi - e lui era rimasto immobile, strizzandomi un occhio e accennando un sorriso. Ero passata oltre un po’ sorpresa da quel gesto ammiccante e, arrivata al mio portone, cercando la chiave, mi ero voltata verso di lui per accertarmi che esistesse davvero. Al mercato, la mattina, incontravo spesso uomini con la bocca e il naso “rifatti”, la pelle del viso tirata sotto lo strato di fondotinta rosa, le scarpe basse, i capelli raccolti in un codino, cicalavano con i fruttivendoli, gesticolavano, strattonavano il cagnolino al guinzaglio, camminavano ondeggiando e lanciando occhiate a destra e a sinistra. La notte, passando in bicicletta sui viali, cercavo di riconoscere qualcuno di loro nelle creature alte e bionde che in minigonna rossa e tacchi altissimi facevano segni agli automobilisti indecisi. Con il buio sembravano donne truccate troppo, vestite di paillettes ad una festa senza invitati.

sabato 24 maggio 2008

La poltroncina del trans (prima parte) - Anonimo

Mio padre non era contento che io abitassi in una casa con tanti studenti. Fossimo state tutte ragazze, probabilmente non avrebbe avuto niente da ridire, ma quando mi telefonava e rispondeva Giulio, sembrava che la prendesse come un’offesa personale. In effetti eravamo un po’ in troppi in quell’appartamento. Emma ufficialmente aveva una camera singola, in realtà ci dormiva anche Francesco, il suo ragazzo. Poi c’erano Giuditta e Carmen, dormivano nella stessa camera, forse anche nello stesso letto, tornavano a casa dei rispettivi genitori il fine settimana con le borse piene di panni sporchi e ritornavano il lunedì mattina belle fresche e profumate, cariche di sughi e torte salate per tutta la settimana. Poi c’era Giulio, l’unico maschio, quello che rimaneva a casa il fine settimana perché la sua famiglia abitava in Sardegna, dormiva in una specie di sgabuzzino che prendeva luce dal salotto e non era quel tipo di ragazzo che correva dietro alle donne. E poi c’ero io, che dormivo in salotto e dovevo svegliarmi presto la mattina perché gli altri passavano per andare in cucina a fare colazione. Avevo spiegato a mio padre che, in quanto a Giulio, poteva stare tranquillo, ma era successo il finimondo perché secondo lui erano proprio “quei tipi lì” che facevano circolare gli uomini per casa. Quando avevo trovato questa sistemazione, mi era sembrata vantaggiosa per due motivi: primo pagavo poco, secondo, sarei stata costretta ad alzarmi presto e quindi studiare o andare all’università. In realtà nelle case dove circolano tanti studenti, spesso la voglia di studiare va via. Nel mio caso la voglia di studiare non c’era mai stata. Mio padre aveva tanto insistito perché io mi iscrivessi a Farmacia, sarei subentrata a lui nella sua attività una volta laureata e tutto sarebbe rimasto in famiglia. Io non riuscivo ad appassionarmi alla materia, per preparare un esame ci mettevo tanto tempo, ero iscritta al terzo anno e dovevo ancora dare esami del primo. Era anche difficile raccontare bugie a mio padre perché conosceva benissimo i meccanismi della facoltà, aveva buone relazioni con molti professori e controllava periodicamente il mio libretto. Perché non mi ribellavo? Non lo so. Ciondolavo tutto il giorno in cerca di ispirazione, mi appassionavo ad ascoltare le storie d’amore degli altri, trovavo un gusto incredibile a leggere articoli di cronaca nera, andavo spesso a mangiare alla mensa, gironzolavo fra gallerie d’arte e mostre fotografiche, bivaccavo nel giardino della Facoltà e tutto finiva lì. La mia famiglia abitava in un piccolo paese a cento chilometri di distanza e sarebbe stato impensabile per me stare con loro e prendere il treno la mattina per andare all’università. Mio padre almeno una volta al mese, veniva in città per sbrigare i suoi affari, di solito mi telefonava e ci vedevamo in centro per un caffè e per fare due chiacchiere. Sempre le stesse e sempre sullo stesso argomento: i miei esami. Non amava venire a casa perché – diceva – gli veniva il nervoso a vedere tutta quella gente. Poi un giorno arrivò, senza preannunciarsi, stavamo festeggiando un bel trenta e lode di Giulio, il pranzo si era dilungato al tardo pomeriggio con alcool, musica, qualche canna, un po’ di gente buttata sui letti. Una settimana dopo salutai quella casa, quel quartiere e i miei amici. Mi trasferii con tutte le mie carabattole in un monolocale che un conoscente di mio padre aveva appena comprato ad un’asta e glielo aveva affittato a un prezzo di favore. Mio padre era fatto così, si preoccupava delle apparenze, delle lauree messe in cornice, della rispettabilità della famiglia di questo e di quello, ma non voleva mai spendere troppi soldi. Gli sembrò una gran fortuna prendere in affitto il monolocale e quando venne ad aiutarmi per il trasloco, non si accorse nemmeno in che razza di quartiere mi stava infilando. Inveiva solo contro il sindaco e i centri storici chiusi al traffico e senza parcheggi. Il monolocale si trovava al primo piano di una palazzina scalcinata del centro storico, il portone era l’ultimo di una strada tozza e buia a sfondo chiuso.

martedì 20 maggio 2008

Gli altri

Homo Faber, in un commento del precedente post, ha accennato alla questione: chi giudica se uno scrittore è buono o no? Gli altri, dice lui. Ma chi sono gli altri? Ecco come la vedo io.
  • Gli amici
  • Gli editor/agenzie letterarie
  • Gli editori
  • Il pubblico
  • Se stessi
Gli amici. Di solito sono i primi a leggerti. Superate le prime paure (ma c'è chi non le supera mai) il primo passaggio è farsi leggere da chi si conosce. Alcuni, dopo aver saputo che scrivi, chiedono esplicitamente di leggerti (un buon numero nel mio caso), alcuni insistono addirittura anche dopo esser stati accontentati, alcuni chiedono ma poi spariscono, alcuni ti leggono e ti coprono sempre e comunque di elogi (inutili), alcuni non commentano (saranno rimasti disgustati?), alcuni ti criticano sempre e comunque (inutili), alcuni entrano nel dettaglio (utili ma rari), alcuni ti guardano negli occhi e ti dicono che il tuo racconto è bello e ti sembra di capire dal loro sguardo che effettivamente, davvero, senza scherzi, ciò che dicono corrisponde a ciò che pensano. Succede raramente, ma talvolta mi è capitato. Insomma, secondo me, l'aspirante scrittore, se davvero vuole avere un'opinione vera dal lettore non dovrebbe chiedere un commento (tantomeno scritto) all'amico o al parente o a chicchessia; dovrebbe aspettare che quel qualcuno dal quale aspetta un giudizio gli si rivolga spontaneamente e gli dica qualcosa, a quel punto dovrebbe guardarlo fisso negli occhi, dovrebbe cercare di leggere una lucina nello sguardo dell'interlocutore e dire: sì, questa lucina mi dice che davvero è rimasto entusiasta dei miei racconti, della mia poesia, del mio romanzo. Se accade, ma accade di raro, forse mai, è valsa la pena scrivere per gli altri.
Gli editor/agenzie lettterarie Sono coloro che decideranno se investire o no su di te, coloro che butteranno all'aria la tua opera, te la cestineranno, te la cambieranno da cima a fondo o, in qualche caso miracoloso, te la ritocheranno solamente. Sono i maestri dello scrittore, nel senso di "coloro che danno il voto". Dunque: sono coloro che lo scrittore più ama e più odia, come tutti quelli che ci giudicano. Lo scrittore, o aspirante tale, non potrà mai essere obiettivo nei loro confronti. Io non li ho mai affrontati e quindi non dirò di più.
Gli editori Talvolta coincidono con la categoria sopra, e quindi vale quanto detto sopra. Spesso sono il livello superiore, a cui si arriva dopo gli altri filtri. Di per sé, che io sappia, sono odiati dagli scrittori. Dagli aspiranti scrittori perché cestinano sempre tutto ciò che gli arriva. Dagli scrittori famosi perché stanno sempre col fiato sul collo: è pronto? è finito? allora, a che punto siamo? mandalo, mandalo, mandalo, ora, subito, presto.
Il pubblico Semplice. Se hai successo, vuol dire che sei un bravo scrittore. Se non hai succeso vuol dire che il pubblico è di basso livello e non sa discernere un buono scrittore da uno cattivo. (La penserà così anche Fabio Volo? Voglio dire, ammesso che i suoi libri li scriva effettivamente lui, davvero Fabio Volo pensa di essere un buono scrittore?)
Se stessi Ed eccoci al punto chiave. Ah, ce ne sarebbero di cose da dire! Ma questo è solo un post. Intanto però, in due parole: se scrivo sto bene, se non scrivo sto male. Punto.

mercoledì 14 maggio 2008

Indovinello dell'Homo Vulgaris

Silvius Tullius Oleaceo fu una delle più importanti figure di tutta l’antichità pesciatina. Fu filosofo, scrittore latino e uomo politico nell’ultimo periodo della Repubblica della Forfora, nel primo secolo ante era volgare. Del suo pensiero filosofico non ci sono giunti che pochi frammenti ma, in compenso, confusi. Probabilmente a causa del lungo black-out, durato quasi un secolo, che si è abbattuto intorno alla sua opera dopo la tragica morte dell’ultimo degli studiosi che se ne stava occupando, Franz Joseph Krankl, trovato morto spiaccicato, a Vienna, ai piedi dello Steffel. Fu lì trovato, dagli spazzini che si apprestavano al lavoro, all’alba del 28 aprile 1913: nella sua bocca fu rinvenuto un biglietto appallottolato con su scritto “Ich habe nicht eine stock verstanden” (che in italiano vuol dire: “non ci ho capito una mazza !”). Quel tragico accadimento scosse profondamente la comunità accademica internazionale, soprattutto perché richiamò alla mente altre recenti morti avvenute in circostanze analoghe. Si cominciò a parlare di “sindrome dell’Ulivo”, e sul filosofo-scrittore pesciatino cadde l’oblìo. Oggi, un rinnovato interesse sembra accendersi in seguito al ritrovamento di un suo scritto finora sconosciuto, “Memorie di un vespasiano”, che nuova luce potrebbe gettare sulla vita e l’opera di quest’autore. Tuttavia, se della sua vita sappiamo ancora poco, molto sappiamo invece della sua fine. Tutto cominciò (quando si dice “l’inizio della fine”!) allorché Silvius Tullio Oleaceo prese la decisione di aprire, a Pescia, una sua scuola di Retorica. Invano i suoi genitori (brave persone e onesti lavoratori!) cercarono di dissuaderlo dall’idea, di spiegargli che la pensione è importante, che molto meglio sarebbe stato un posto nella Pubblica Amministrazione… pochi sesterzi, ma sicuri! Molti Retori avevano fatto una brutta fine, la cosa sfociava sempre in politica e, quindi, in un mare di guai. Ma non ci furono ragioni né sentimenti, Silvius era ostinatamente deciso nel suo intento: prese in affitto un capannone nella dismessa zona industriale e cominciò ad arredarlo per accogliervi i suoi futuri discepoli. Né valsero a scoraggiarlo i moti d’ilarità e derisione che sguaiatamente scoppiarono all’interno dell’Ordine dei Retori. Fra questi, il più infido di tutti, non a caso soprannominato l’Homo Vulgaris, arrivò persino a sganasciarsi dalle risate, pancia a terra battendo, come un forsennato, pugni e piedi sul selciato proprio di fronte alla futura scuola del filosofo. Chi era mai questo Silvius che aveva l’ardire, la faccia tosta e l’incoscienza di sfidare cotàli maestri? E con quel nome, poi…! Più in grado di evocare immagini di vita pastorale, piuttosto che la fine Arte dell’Oratoria, del “docere et probare”, “delectare” e “movere”! Critiche e derisioni che avrebbero demoralizzato, fino a tramortire, gli spiriti più corazzati. Ma non il giovane ed ingenuo Silvius, che soleva rispondere con un semplice: “Io tiro innanzi”. Sappiamo che egli non ebbe mai mire o ambizioni politiche personali, ma un preciso e chiaro progetto politico-civile che denominò, con la modestia che lo contraddistingueva, semplicemente “L’Ulivo”. Al centro del progetto c’era la creazione dell’ “Homo Novus”, colui che avrebbe liberato il popolo dalla Tirannia del Potere. Per la verità non sono mai giunte fino a noi, testimonianze attendibili circa il reale desiderio del popolo di essere liberato dalla tirannia, ma non per questo il progetto dell’“Ulivo” deve sembrarci men che meritevole. Chiamò alla sua Scuola la meglio gioventù di tutta la Val di Forfora, e per questo la intitolò “Viva Juventus”. Il progetto piacque e fu subito un boom di iscrizioni, la qual cosa smorzò in poco tempo gli sghignazzi sulla bocca dei suoi detrattori, primo fra tutti l’Homo Vulgaris. Essi erano un tantino preoccupati del successo della nuova Scuola, ma soprattutto invidiosi della trovata di Silvius di voler liberare il popolo: a loro non era mai passata nemmeno per l’anticamera del cervello. In realtà, ma questo i suoi nemici non lo sapevano, le cose alla “Viva Juventus” non andavano proprio a gonfie vele: la “meglio gioventù” si rivelò presto de coccio e per l’Homo Novus si sarebbe dovuto attendere chissà quanto. Non c’era tempo, la Repubblica era al collasso e nell’imminente Età Imperiale la Retorica non sarebbe più servita. Fu così che maturò in Silvius l’idea di aprire la sua Scuola anche alle fanciulle. Fu la sua fine. I suoi nemici non aspettavano che l’occasione propizia per poterlo distruggere e lui gliela offrì su un piatto d’argento: a pensarci bene, come politico era una schiappa! Solo una fanciulla, Viola Tullia Terenzia, aderì all’apertura di Silvius, ma tanto bastò: il fatto costituiva una gravissima violazione delle convenzioni sociali e un sovvertimento dell’ordine pubblico, che avrebbe presto portato alla dissoluzione della Repubblica! Questo, in sintesi, fu l’atto d’accusa che l’Ordine dei Retori mosse contro Silvius, presso il Pretore Caio Faber Massimo. L’atto d’accusa fu, oltretutto, aggravato dal fatto che la ragazza, Viola, portasse anche sfiga: numerose e circostanziate furono le prove addotte all’uòpo. Di certo ne portò a Silvius: Caio Faber Massimo era considerato uomo di ferrea intransigenza ma non ottuso e, pare, fosse orientato ad indulgere sulla questione e scagionare Silvius dalle accuse che gli muovevano i Retori. Fu a questo punto che Silvius commise un secondo errore, quello che gli sarebbe stato fatale, e chiese che fosse ascoltata la testimonianza della ragazza. Fu un disastro. Caio Faber Massimo recedette dai suoi propositi e ordinò la chiusura immediata della Scuola, oltre al pagamento di una sanzione di duemila sesterzi. Figurarsi se lo scrittore era uomo da piegare la testa! Decise di barricarsi nella sua Scuola insieme ai suoi discepoli e tenervi l’ultima Orazione (che l’Homo Vulgaris si affrettò a definire “funebre”) nell’attesa dell’arrivo dei soldati. I soldati arrivarono, “con i pennacchi e con le armi”, e presero d’assedio la “Viva Juventus”. Furono tutti arrestati. Silvius Tullius Oleaceo fu giustiziato, per decapitazione, la mattina successiva. I suoi studenti, compresa Viola, furono obbligati ad assistere al supplizio. Una leggenda narra che Viola si apprestò a raccogliere, in un’ampolla, il sangue del filosofo che grondava dalla giugulare, poi si diresse verso la Forfora per disperderne fra i flutti: le acque si tinsero di rosso per quaranta giorni. Il tragico epilogo accrebbe ancor di più la fama della ragazza di portare sfiga, per questo non riuscì mai a trovar marito e nemmeno potette farsi suora, perché i conventi erano ancora di là da venire. “La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa” (Karl Marx) Qui è stata esposta la tragedia, trovare la farsa.

sabato 10 maggio 2008

Racconto - Inchiostro

Mio nonno lavorava dalla mattina alla sera su grandi macchine di inchiostro e parole. Le parole erano composte da singole lettere in rilievo sporche di nero che mio nonno metteva insieme secondo il gusto e il piacere dei clienti. Possedeva una tipografia e io giocavo con lui alle lettere sporche di inchiostro nero che si imprimevano sulla carta colorata di giallo che avrebbe annunciato tutti gli eventi del paese e dei paesi vicini. Le lettere erano talvolta di corpo tanto piccolo che mio nonno era costretto ad allontanarsi e a fare smorfie per capire qual era la lettera che teneva in mano, o addirittura a inforcare gli occhiali per non sbagliare, ché poi magari i clienti gli avrebbero fatto ristampare tutto. Spesso lo vedevo sbuffare perché non riusciva trovare il carattere giusto o perché, dopo aver steso tutti i blocchetti metallici a comporre le frasi commissionate, si accorgeva di un piccolo errore. Io mettevo i punti e virgola sull'indice della mano destra e riuscivo a distinguerli benissimo dalle semplici virgole, meravigliato che mio nonno non fosse in grado di fare altrettanto. Oppure erano tanto grandi, le lettere, che facevo fatica a tenerle in mano. Erano F schematiche che dovevo reggere con entrambi le mani, oppure S sinuose delle quali mi divertivo a seguire il profilo con l'indice. Poi tiravo fuori dai cassetti qualche foglio bianco e vi disegnavo sopra con la penna nera R roboanti, Z battagliere e G arzigogolate. Talvolta andavo in ufficio, una zona dello stanzone separata da un parete di compensato, a battere sui tasti di una macchina da scrivere parole in libertà. Nel lavoro di tipografo tutte le lettere erano importanti, nessun carattere doveva essere trascurato, il trattino corpo 6 aveva lo stesso valore di una M corpo 72. O così pensavo io. Invece mio nonno si sarebbe disperato se avesse letto sui grandi manifesti attaccati ovunque nel paese PALIO DEI CIUCHI scritto, per dire, PALIO DEI CIUCMI. Poteva capitare. Una volta stampò un manifesto di una gara ciclistica nel quale erano descritti i passaggi dei corridori e l'ora presunta di passaggio: piazza Garibaldi ore 11.00, via Matteotti ore 11.07, piazza Giovanni XXIII ore 11.05. Così gli avevano detto e così lui stampò. Prima le 11 e 7, poi le 11 e 5. Rimasi stupefatto da questa decisione: era un errore e lui doveva correggerlo. Ogni volta che andavo a passare i pomeriggi in tipografia volevo rovistare negli enormi cassetti nei quali erano riposti blocchetti metallici di tutti i tipi e dimensioni, divisi in scompartimenti dalle pareti di legno. Una volta tirati fuori e osservati, rigirati, toccati, dopo essermi macchiato a dovere le mani, dovevo riporli attentamente ognuno al proprio posto. A forza di giocare con i caratteri mobili avevo imparato a leggere intere frasi al contrario, capacità indispensabile per un buon tipografo.

Mia nonna aveva una cartolibreria nel centro del paese: vendeva carta, buste, penne, quaderni, libri. I libri non li comprava mai nessuno, non so se era perché in paese non leggeva nessuno o perché se li andavano a comprare in città. Io credo che fosse perché non leggeva nessuno. Io li leggevo a puntate, ogni volta che andavo in negozio leggevo qualche pagina, poi, quando tornavo la volta successiva, riprendevo la lettura. Solo che spesso, non potendo tenere un segnalibro, non ricordavo a che punto ero arrivato e ricominciavo a caso; talvolta mi accorgevo di aver già letto quelle pagine, altre volte, probabilmente, avevo ne avevo saltate parecchie. Oppure il libro mi aveva stancato e ne cominciavo un altro, magari ne leggevo tre o quattro contemporaneamente, saltavo dall'uno all'altro, a seconda delle giornate, del tempo, della voglia di letture da bambini o più seriose. In realtà, molto più spesso andavo all'edicola a comprare la Gazzetta dello sport e leggevo quella. I giornali erano enormi per un bambino delle elementari così io andavo dietro il banco, riparato dalla vista dei clienti, mettevo il giornale in terra, nel poco spazio rimasto libero tra gli scatoloni e la merce in vendita, mi stendevo sulla rosea e la studiavo riga per riga, sognando, come tutti i miei amici, di diventare un grande campione di tennis o di calcio. Nel periodo estivo, poco prima e all'inizio dell'anno scolastico, le letture lasciavano il posto al lavoro. Ero il piccolo commesso di mia nonna durante la stagione dei libri scolastici, l'unica in cui i compaesani sembravano davvero intenzionati a leggere qualcosa. In quel periodo tutti i libri che mi passavano sotto mano erano solo autore – titolo – casa editrice, e non ne sfogliavo mai uno perché nei pochi metri quadrati della cartolibreria, e anche fuori, si affollavano decine di studenti, ma più spesso di mamme, schiamazzanti e pretenziose, tutte improvvisamente timorose che i propri figli non imparassero abbastanza (i libri dovevano esser già arrivati per il primo giorno di scuola, altrimenti erano proteste e arrabbiature). Protestavano sempre, di solito perché i libri erano rincarati davvero troppo: non si poteva spendere così tanto per mandare a scuola un figlio! Poi, per fortuna, i soldi ce li avevano, perché spendevano il doppio di quanto erano costati i libri comprando zaini e agende colorate.

Così da bambino sguazzavo tra le lettere e le buste, tra i fogli e le penne, tra i libri e i quaderni, e ogni tanto mi arrivava qualcosa di questo mare di inchiostro e carta, qualcosa penetrava nella mia mente, mi rimaneva anche nelle giornate d'estate tra i campi e le strade, a ridere e giocare, a correre e litigare, a fare a botte e far la pace, tutta questa materia della quale erano composte le mie giornate s'incuneava lentamente nel mio corpo e non me ne accorgevo, non pensavo che potesse non essere così, odoravo di inchiostro e di carta stampata e le mie mani erano sporche di nero, sempre macchiati i miei polpastrelli, e giocavo e leggevo, e mi impregnavo dell'odore dei manifesti stampati di nero su carta gialla luminosa.

silviodulivo

mercoledì 7 maggio 2008

Le interviste impossibili: silviodulivo intervista Bohumil Hrabal

  • silviodulivo: Allora, Bohumil, come te la passi nell’aldilà?
  • Bohumil Hrabal: Da oltre dieci anni lavoro alle carte dei vivi. Sono le storie di tutti i viventi scritte sulla carta, svolazzano qua e là, qui non c’è la forza di gravità, e io recupero tutte le carte e le rimetto insieme e le presso, e penso alle vite di tutti i viventi della terra e talvolta mi soffermo a leggerle; mi interessano molto le storie dei vivi, soprattutto dei filosofi, quando trovo una persona interessante lascio andare tutte le altre carte, tutte le altre storie, e leggo la storia di un filosofo o di uno scienziato o di uno scrittore ceco, magari, e intanto tutte le altre carte volano via, e se il Padrone se ne accorge, o un suo Attendente, mi richiama all’ordine, lo fa sempre con gentilezza e con il sorriso sulle labbra, perché così deve fare, ma io lo vedo che cosa pensa: ah, quel Bohumil!
  • sdu: Insomma, vedo che non è cambiato molto rispetto all’aldiqua .
  • bh: Sì, e poi per noi l’aldilà è quello che è l’aldiqua per voi e viceversa, ci divertiamo molto, lavoriamo, beviamo, facciamo un po’ di sport, a me poi piace fare tanti mestieri, però il raccoglitore e pressatore di carte dei vivi è la mia love story.
  • sdu: Almeno da morto potresti vivere in maniera più agiata senza correre di qua e di là a fare lavori umili.
  • bh: La mia vita dopo la morte non sarebbe così poetica senza queste occupazioni, conoscerei solo persone lette sui libri, e invece così continuo a conoscere facchini, operai, distributori di volantini porta a porta, agenti di commercio, impiegati comunali, o che per lo meno lo sono stati, e anche qui fanno gli stessi mestieri che facevano da vivi, e i loro mestieri, i loro volti, le loro parole ispirano la mia prosa e i miei racconti al pub mentre sorseggio una birra.
  • sdu: Dunque scrivi ancora?
  • bh: No, nell’aldiqua non scriviamo in effetti, non nel senso che intendete voi, scriviamo sulla carta e la carta vola via, spinta dal vento, allora io riprendo un altro pezzo di carta, e scrivo un’altra storia, un’altra vita, e poi ancora la carta vola via, e chissà chi la leggerà poi! se ci sarà qualcuno che la ferma mentre corre nell’aria e poi la legge e magari dice: oh, Hrabal, scrive ancora. Chissà. Non scrivo libri, però continuo a leggere, soprattutto le storie dei vivi, come ti ho detto, ma anche qualche scrittore del vostro mondo.
  • sdu: Non ti chiedo quali, non vorrei rimanerci male.
  • bh: Non certo te. Anzi, a proposito: mi dicono che copi il mio stile.
  • sdu: No, non è vero, ti giuro. E’ solo il mio stile, quello che mi è scappato fuori dalla penna quando ho cominciato a scrivere. Poi Monica Sarsini, che conduceva il gruppo di scrittura, mi ha detto: hai uno stile simile a quello di Hrabal, e allora ho cominciato a leggerti, prima non sapevo neanche chi fossi, davvero, e ora sei uno dei miei scrittori preferiti. Anzi, parlami della tua scrittura nell’aldilà.
  • bh: Nell’aldiqua, come ti ho detto, non scrivo libri, ma non m’importa perché io racconto con le immagini e posso raccontare anche mentre lavoro o gioco a tennis o do da mangiare ai gatti, e la mia è una scrittura così, una scrittura orale che non so dirti da dove mi è scappata fuori, il mio modo di raccontare e di vedere le cose non sono studiati a tavolino, io mi metto anche ora, nell’aldiqua, alla mia vecchia macchina da scrivere, e scrivo e poi finisco un foglio, lo tolgo dalla macchina da scrivere e lui vola, e chissà dove va, a me non interessa più tenerli e rileggerli dopo tanto tempo, sarebbe forse sgradevole, e il foglio va, e spero che porti con sé le mie immagini, dopo la prima immagine la seconda, e poi la terza, e così via, una dopo l’altra, e spero che qualcuno le fermi, le mie carte, e le legga, e rimanga qualche immagine nelle loro povere testoline.
  • sdu: Sono sicuro di sì. Parliamo della scrittura al tempo di internet. Hai appena avuto il tempo di intravederla. Sai che cosa è un blog?
  • bh: Oh, sì, è una cosa molto pericolosa.
  • sdu: E perché?
  • bh: Ora scrivi una cosa e tra vent’anni ti rinfacceranno di averla scritta, e questa cosa che hai scritto vent’anni prima potrebbe perseguitarti, non solo perché qualcuno ti dice: guarda, hai scritto questo, questo e questo, ma perché sei tu stesso che ti rendi conto di averla scritta. Così io ho rilasciato un’intervista nel 1975 a una rivista ufficiale del PCC e tutti me l’hanno sempre rinfacciato, e anch’io me lo sono rimproverato, ma io non sono un tipo coraggioso, io volevo solo pubblicare, perché uno scrittore che non pubblica non è uno scrittore e anche tu sei come me, no?
  • sdu: Nel senso che non sono coraggioso o nel senso che non sono uno scrittore perché non pubblico? Ti do ragione in tutti e due i sensi. Cambiamo discorso, parliamo dei tuoi gatti.
  • bh: Oh, i miei gatti ci sono ancora, e ancora do loro da mangiare e li curo più degli umani, o post-umani, o quel che siamo, e loro mi amano più degli altri miei colleghi, e anche io li amo forse più dei morti con i quali bevo, mi diverto, ma io i gatti li accarezzo e loro no, non li accarezzo.
  • sdu: Bene, spero di non averti disturbato troppo, Bohumil, immagino che dovrai andare a lavorare, o al pub, o a scrivere.
  • bh: Be’, sì, il tempo sta per finire, il Padrone forse mi starà cercando. Mi sono molto divertito, ringrazio te e i tuoi lettori, spero che ci leggano in tanti.
  • sdu: Non ci contare troppo, comunque anch’io volevo ringraziarti perché con te mi diverto molto, e piango e rido e penso e sogno. Ciao, Bohumil.
  • bh: Na shledanou!

domenica 4 maggio 2008

Yehoshua - L'amante

Ah, i romanzi a più voci! Mostrare la realtà da una prospettiva e poi da un'altra, raccontare un episodio e raccontarlo di nuovo venti pagine più avanti, mostrare la molteplicità dei punti vista, immedesimarsi ora in una vecchia, ora in un uomo, poi in un'adolescente. Le sfaccettature della vita e dei fatti. Che cosa c'è di meglio di un romanzo a più voci per raccontarle?
Ho smesso di leggere Yehoshua da qualche tempo: i suoi personaggi cominciavano ad annoiarmi. Non mi sembrano veri. Più che altro sembra che agiscano e pensino non come ritengono giusto ma come credono che debbano agire e pensare. Ricordo però L'amante come il miglior romanzo dell'autore israeliano e i personaggi da lui descritti i più simpatici della sua produzione letteraria.
(Il romanzo non ha niente a che fare con il film "L'amante" ambientato nell'Indocina degli anni '20; la trasposizione cinematografica è quella di Roberto Faenza, "L'amante preduto")
Chi lo potrebbe leggere.
Tutti: lettori abituali e occasionali, filoisraeliani e antisraeliani, giovani e meno giovani.
Sullo sfondo di una Haifa scossa dalla guerra del 1973, si dipana lo scenario de L'amante, il più sinceramente israeliano dei romanzi di Yehoshua. L'autore si affida alle voci dei suoi personaggi, ai loro sogni, ai ricordi, ai desideri, alle aspettative: sono le parole di Adam, agiato proprietario di una grande officina meccanica; le riflessioni della figlia Dafi, quindicenne insonne e ribelle; i sogni della moglie Asya, intellettuale precocemente ingrigita; gli stupori di Na'im, giovane operaio arabo; i vaneggiamenti della novantenne Vaduccia; e infine il resoconto stupefatto di Gabriel, l'amante scomparso. Mondi lontani, a dispetto dell'amore; voci tanto vicine quanto diverse siglano l'impossibilità di conoscere veramente chi ci vive accanto. (webster.it)