lunedì 31 dicembre 2007

Vini d'annata

Mio fratello Flavio, che mi conosce bene, mi ha regalato due vini d'annata adatti a me. CASTELLO SMILEA (12% vol.) Antico e pregiato vino dell'entroterra toscano. Nasce nel novembre del '69 da vigneti pratesi e viene subito innestato nella piana aglianese. Dopo lo spostamento sui colli montalesi e la scelta del terrreno migliore vicino al castello del cui marchio può a tutt'oggi fregiarsi, raggiunge negli anni una qualità che cresce esponenzialmente e ne fa ormai uno dei vini di riferimento del panorama enologico toscano. Dal colore chiaro, con riflessi rosacei ai primi caldi, presenta all'olfatto sentori juventini. Di un tannino leggermente padovano, perfeziona di anno in anno un aroma teatrale e un sapore romanzesco che dà il meglio di sé nell'abbinamento con pietanze autoctone, in special modo del vigneto ugna. Dal retrogusto freudiano, si serve a qualsiasi temperatura.
ROSSO TIMIDEZZA (14% vol.) Silente nettare etrusco, dal colore rubino nei momenti emozionalmente più forti e dalla sconfinata sensibilità; si mette in evidenza in fase olfattiva che gustativa, per i sentori più discreti e ppure profondi, intensi e ambrati che un vino possa mostrare. Non sfoggia, ad un primo abbocco, tutti gli aromi che vengono invece prepotentemente e straordinariamente esalati ed esaltati da una lenta e rilassata decantazione. E' un vino che conquista solo i palati più competenti e attenti ai suoi complessi e importanti percorsi interiori. ... e poi ne ha trovato un altro che si accoppia bene con i due precedenti! SPUMANTE DELL'UGNA (12% vol.) Frizzante spumante montalese, dal perlage unico al mondo, in quanto si riesce a produrlo con un vortice di bollicine che però non si esaurisce se non dopo che è stato seccato. Nessuno riesce a placarne l'effervescenza. I più esperti enologi non hanno ancora trovato la soluzione. Di colore giallo paglierino, dolcissimo e delicato all'olfatto, presenta un aroma con sentori di bosco di Limestre del '78. Si raccomanda un assaggio moderato per non incorrere in un attacco di irrimediabile ilarità.

sabato 29 dicembre 2007

Saviano - Gomorra

I libri più belli sono quelli che si leggono in pochi giorni, è assurdo ma perlopiù si passa il tempo su romanzi che non piacciono, li trasciniamo stancamente per settimane in attesa di trovare un romanzo di quelli che non vedi l'ora di tornare a casa per continuare a leggerlo. Gomorra di Saviano l'ho iniziato tre giorni fa e ora sono qui a raccontare di un romanzo-verità (più reportage giornalistico che romanzo) che ti cambia i pensieri e le idee. Roberto Saviano per aver scritto questo libro vive sotto scorta della polizia, ha fatto nomi e cognomi dei camorristi, ha raccontato le loro imprese criminali, le loro ridicole idee e le loro imitazioni dei mafiosi nei film hollywoodiani, la loro capacità imprenditoriale che li ha portati a dominare molti mercati legali e illegali, al sud e al nord, in Europa e fuori d'Europa. Io so e ho le prove. io so come hanno origine le economie e dove prendono l'odore. L'odore dell'affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. [...]. Io so e ho le prove. Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento. Loro stessi sono parte del ciclo del cemento. Io so che prima di trasformarsi in uomini di fotomodelle, in manager da barca, in assalitori di gruppi finanziari, in acquirenti di quotidiani, prima di tuto questo e dietro tutto questo c'è il cemento, le ditte in subappalto, la sabbia, il pietrisco, i camioncini zeppi di operai che lavorano di notte e scompaiono al mattino, le impalcature marce, le assicurazioni fasulle. [...] Nel loro paese modello, gli USA, quando un imprenditore riesce a diventare riferimento finanziario, quando raggiunge fama e successo, accade che convoca analisti e giovani economisti per mostrare la propria qualità economica, e svelare le strade battute per la vittoria sul mercato. Qui silenzio.

martedì 25 dicembre 2007

Pranzo di Natale

S'è destata presto, ha fatto colazione e si è messa in poltrona. Dopo un po' ha cominciato ad arrivare gente. Chissà come mai! Come mai la Fabiola non va a scuola? Perché è domenica.
Ormai è mezzogiorno, è l'ora di andare a tavola. Che cosa ci fanno tutte queste persone a tavola? Chissà, intanto mangiamo: crostini col salmone e col caviale, pasta, branzino. E vino. "Un ne vo' più", ma quando è arrivata la zuppa inglese non s'è tirata indietro e ha spolverato il piatto.
Un po' di confusione ci vuole ogni tanto e nonna Beppa oggi si è ripresa un po'. L'hanno fatta anche arrabbiare, sicché ha chiesto aiuto al cielo, forse perché le facesse mantenere la calma. Ha chiacchierato, chiacchierato, ma non s'è capito granché di quel che voleva dire. Natale n. 104 per Nonna Beppa.

domenica 23 dicembre 2007

Adozioni (di Homo faber)

Sapete qualcosa dei sensi di colpa? No, non ne sapete nulla, perché ciò che potete aver provato è nulla se comparato all’ineffabile tormento che fece di tutta la mia adolescenza un inferno prematuro. Penserete forse che l’insicurezza tipica di quell’età ne fosse la causa, o l’oppressione di un Super-Io particolarmente severo, o qualche altro complesso che un buon psicologo avrebbe potuto facilmente identificare e perfino curare. Macché. La colpa c’era eccome, il peccato era più che reale e si ripeteva con tanta frequenza che poco durava il pentimento, ancor più fugace era il buon proposito, e già era pronta la ricaduta, inevitabile perché troppo pressanti le tentazioni. C’è chi si è cavato gli occhi per molto meno! L’unico antidoto, ciò che mi permise di sopravvivere, fu la rinuncia ad ogni resistenza, l’accettazione del mio destino alla maniera di un eroe greco, di un Aiace che dallo scoglio irride Nettuno, di un Prometeo che sfida la collera degli dei, e a quel punto era il peccato a dare senso e valore alla mia esistenza, era la consapevolezza di un’eterna dannazione ad accomunarmi a quegli eroi.

Ma un giorno, al raggiungimento della mia maggiore età, mio padre, mio padre per modo di dire, vuole parlarmi, mi invita ad entrare nel suo studio, mi fa sedere davanti a lui e con il tono grave che la circostanza impone mi rivela che sono stato adottato e che quindi non sono suo figlio, né di colei che ho sempre chiamato mamma, né ho rapporti di parentela con quelle che ritenevo le mie due sorelline, trasformando la solenne epicità dei miei incesti sublimi, nel volgare squallore dei quotidiani amplessi con una vecchia bagascia e quelle troiette delle sue figlie.

C’era da perderci la testa, ed io rischiavo effettivamente di perderla, dapprima nel più completo smarrimento, poi nella ricerca affannosa della famiglia autentica, che sono riuscito un giorno a rintracciare, finalmente felice fra le braccia della mia vera madre, nel tenero affetto delle mie vere sorelle. Fratelli non ne ho, ma tanto sono eterosessuale di stretta osservanza.

mercoledì 19 dicembre 2007

Blu (Assia Lazzerini)

E’ incredibile come le parole facciano più male di tutte le altre cose.

Ma ciò che fa più male è lo sguardo.
Quando l’ho ritrovato palpitava ancora, ma non è durato molto.
L’avevo perso, non lo sentivo più; non era rosso come me l’ero sempre immaginato, no, era blu screziato d’argento.
Notte sera o pomeriggio non saprei dire, lui mi parla.
I suoi occhi mi guardano, la sua bocca si muove e i capelli sono come uno specchio dai mille riflessi.
Mi parla, si avvicina.
Troppo vicino. Ho paura.
Ma non mi muovo, non parlo.
Accetto ciò che deve succedere; io non credo al destino né a un qualsiasi tipo di Dio che ci prefabbrica le vite ma a volte non ho forza per oppormi.
Si avvicina, i suoi occhi mi ipnotizzano, silenzio.
Si ferma, attimi che non passano più.
Chiudo gli occhi. Ho paura.
Non succede niente, ma sento che lui è qui.
Sento il suo respiro caldo su di me, che mi faceva venire i brividi ma che ora mi fa solo ribrezzo.
Apro gli occhi, lui mi guarda, ha una strana smorfia in faccia, sembra un sorriso ma non sono sicura.
Paura.
Muove la bocca, dice qualcosa.
Non saprei dire cosa, ascoltavo il ronzio dei miei pensieri.
Ma so solo che se n’è andato.
Non fisicamente ma dal mio cuore.
Mi guarda ancora e sotto il suo sguardo sento il mio cuore morire.
E a un tratto non sento più il mio cuore.
Non mi muovo, non parlo.
Fa male.
Sento il mio cuore di nuovo.
Troppo piano, non ce la farà.
E lui ancora immobile mi fissa.
Io mi perdo in quegli occhi blu come… Esiste il colore dell’amore? Non so se l’avete mai visto ma non è rosso come tutti si immaginano.
No, è blu screziato d’argento.
Non mi perdonerò mai di essermi persa in quegli occhi blu ancora una volta, una volta di troppo.

domenica 16 dicembre 2007

Due splendidi spettacoli

In due giorni mi sono visto due splendidi spettacoli. Il primo, drammatico e a tratti divertente, al Fabbricone di Prato: Gomorra. E' la trasposizione teatrale del libro di Saviano e credo che stia girando per tutta Italia. L’altro è di una compagnia di giovani attori (Distilleria Teatrale Cecafumo, www.distilleriateatrale.it ): Gabbato lo santo. In due settimane hanno intervistato i cittadini di Serre di Rapolano e poi in due giorni hanno messo in piedi uno spettacolo esilarante grazie alla “sceneggiatura” dei serrigiani. (Qualcosa di simile, da quello che ho capito, faranno a Prato con Gli omini, il 18 gennaio al teatro Magnolfi) Il tutto con 15 euro (10 Gomorra e 5 Gabbato lo santo). Non sempre il teatro, anche quello di alto livello, ha dei costi proibitivi.

sabato 15 dicembre 2007

Racconto - Natale ti amo natale ti odio

Entro in auto in via Gioberti, è tutta luminarie, lampadine, luci, lucine, insegne, addobbi, festoni, ghirlande, coccarde, palle, palline, mi si contrae l’intestino, i muscoli della pancia, devo comprare i regali, non posso sfuggire, pacchi, pacchetti, fiocchi, provo ad avventurarmi nella strada, meglio sarebbe dire, sono costretto dalla folla a entrarvi, perché, fosse per me, scapperei subito, è piena di gente, ci sono tante persone che conosco, gente mai vista, parenti, vecchi compagni di classe, vecchie amanti, amanti vecchie, amici, amiche, conoscenti, il fratellone, le zie, nonno Gino, gente famosa, scrittori, saramago, irvinewelsh, attori, gassmann, tomcruise, a quelli che mi stanno accanto dico, o vorrei dire, ma guarda, guarda un po’, tutte queste persone famose, in questa via, proprio qui, ma la gente, conosciuta o sconosciuta, non mi sta a sentire, è indifferente alle mie parole, al mio dolore, io glielo dico, sto soffrendo, non riesco ad uscire di qui, provo a scappare nella prima via laterale, il flusso mi respinge dentro, ora sono in auto, ma guido da dietro, sì, sono sul sedile posteriore e cerco di guidare, non arrivo al freno, all’acceleratore, la manopola del cambio è lunghissima, si piega tutta, mi rimane in mano, l’auto è incontrollabile, salgo sui marciapiedi, sbatto contro i pali, vorrei suonare il clacson, proseguo, mi ritrovo a piedi, mi guardo i piedi, ho dimenticato le scarpe, sono in ciabatte, tutti mi guarderanno ora, mi scherniranno, bisogna che vada via, torni indietro, che vergogna, ho un appuntamento, sono in ritardo, ho perso l’autobus, sono più delle nove, farò tardi a scuola, c’è l’esame, non ho studiato, ripeterò l’anno, dove sono gli appunti, non ho fatto la versione, devo copiarla, mai una volta che sia pronto, eppure pensavo di aver finito la scuola, invece no, eccomi nel corridoio, la maestra delle elementari, Matteo delle superiori, i miei colleghi di lavoro, tutti tranquilli, io preoccupato, quanta gente in questa strada, sembra di essere a Certaldo, dove sono i giocolieri, i trampolieri, gli sputafuoco, devo farmi largo, largo!, largo!, largo! urlo ma l’urlo rimane in gola, non riesco a sputar fuori niente, la lingua è incancrenita, i muscoli non si muovono, voglio correre, correre, correre, ma non ce la faccio, è pieno di cani, cani puzzolenti dei punkabbestia, perché li hanno fatti entrare questi schifosi, e a me non volevano far entrare con la mia cagnolina, vogliono mordermi, mi sono dietro, provo a correre, non ce la faccio, non riesco a tirar su le gambe, a sollevarle da terra, loro sono velocissimi, stanno per agguantarmi, dovrei saltare il cancello, come quella volta, qualcuno mi guarda, perché non mi aiutano, non hanno paura anche loro?, scivolo, sono in terra, oddio, mi sbraneranno, ancora non sono arrivati, nonostante siano così veloci, forza, mi tiro su con una mano, che fatica, però vado su tutto, sì, tutto, mi sollevo tutto da terra, sono sospeso in aria, staccato dal marciapiede, tra le gambe della gente, ora ce n’è poca, ma io mi alzo sempre di più, che sensazione, volo, distendo le braccia e volo, sono sopra di loro, continuano a guardarmi indifferenti, ma chi sa volare?, dovrebbero ammirarmi, vedo tutti dall’alto in basso, sotto di me i campi, gli ulivi, via la gente, via le luci, sorrido, è tutto buio, solo le stelle, rido felice, urlo al vento.

lunedì 10 dicembre 2007

Racconto - Carni

Si muovono sempre in coppia, decenni e decenni sempre insieme, le stesse persone, le stesse parole, gli stessi gesti, le stesse domande. Non si rincorrono, non urlano, non tremano, non si picchiano, forse lo hanno fatto quando erano giovani, quando i muscoli erano efficienti, gli ormoni galoppavano senza sosta dentro il loro corpo e i pensieri dentro la loro mente, se per qualche attimo sono riusciti a fuggire alle corde dell’oppressione, o della salvezza, alle camicie di forza della mancanza di umanità, o di alternative, ai lucchetti dell’indifferenza, o della disperazione, ora non più, i muscoli sono flaccidi, i pensieri inscatolati, gli ormoni azzerati, forse anche loro un tempo su è giù lungo questi corridoi a imprecare, insultare, picchiare, forse anche loro qualche volta seduti accanto carezzandosi le ferite, non posso chiederglielo, ora che camminano lungo il viale d’alberi senza foglie, con un cappotto troppo piccolo per ripararli dal vento che entra nei loro pigiami, non posso fare domande, non hanno più risposte, se mai le hanno avute, quello che vorrei sapere è se anche loro, chissà, eh, chissà se anche loro, come me, li vedono, li sentono, magari li toccano, o ne sentono l’odore, ah! se potessi sentirne l’odore, sfiorarne per un attimo la pelle, forse non mi basta vederli e sentirli per comprendere due morti che continuano a vivere in mezzo ai vivi, non mi basta ascoltare le loro voci, guardare le loro mani, forse ho bisogno di fiutare il loro sudore, ho bisogno di toccare le loro carni, chissà se questi due uomini che ora camminano lenti a braccetto trascinandosi dietro l’un l’altro riescono a vederli, sentirli, annusarli, toccarli, vorrei chieder loro: li conoscete, sono stati vostri vicini, amici, compagni, sapevate già il loro destino, e il vostro, ma no no no, come possono saperlo, se neanche i morti conoscono il loro, figuriamoci, però, però, però il coraggio vorrei trovarlo, quando nessuno dei miei colleghi ascolta le nostre conversazioni, quando siamo soli noi tre in attesa di una bevanda calda che riscaldi il corpo infreddolito da muri ammuffiti e pavimenti umidi, quando mi parlano come se fossi davvero in grado di parlare loro, io no, io non posso penetrare le loro parole, i loro visi, i loro pensieri, non posso scoprire il loro passato, posso solo vederli mentre camminano insieme, vagano insieme in queste stanze che non sono più le stesse, ma loro sembrano non vederlo, continuano a vedere infermieri e medici, uno dei due, quello che sempre precede l’altro, e lo trascina, e lo comanda, mi si avvicina e si lamenta del mal di schiena e di come non lo hanno curato bene e le punture, le punture, gliele hanno date, sì, le punture, sì, ma non hanno alleviato, come sempre, il suo dolore, ci sono solo pochi giorni di felicità nei loro anni, ed è quando abbandonano le stanze ammuffite, i corridoi lunghi, le grate di ferro, i viali alberati, e tornano a casa, tornano bambini forse, forse solo da bambini hanno goduto della libertà di costruirsi il presente, e di vivere la vita con i propri muscoli, i propri ormoni, i propri pensieri, prima che fossero annichiliti dai pensieri di altri, i pensieri di gente che ha deciso per loro, ha segnato la loro strada, ma presto tornano qui, questi vecchietti dagli occhi talvolta ancora vivi, benché sarebbe stato meglio per loro se non avessero visto i loro occhi, ascoltato le loro orecchie, sentito le loro carni, sempre insieme perché non possono fare a meno l’uno dell’altro, e quando morirà uno morirà l’altro e forse anche loro, vorrei che non fosse così, vorrei che potessero fuggire almeno da morti, forse anche loro da quel momento si ritroveranno qui a dire le stesse cose, a fare le stesse cose, a pensare le stesse cose, non sapranno niente del loro futuro e il loro futuro sarà questo presente, senza pelle e senza carne, senza tatto e senza odore, ma sempre qui, sempre chiusi, sempre incatenati, sempre uguali, uguali, uguali.

martedì 4 dicembre 2007

Gli spilli (Un'amica che scrive ogni tanto)

Era andata più o meno così. Abitavamo in un’unica stanza a piano terra con il bagno ritagliato in un angolo e un fornello a gas con il frigo dietro a una tenda, un letto matrimoniale appoggiato alla parete davanti alla porta e di lato un armadio antico che sembrava in attesa di essere trasferito in un luogo più consono al suo stato. Una stufa a gas con le ruote era l’unica fonte di calore, ma il suo raggio di azione era limitato e così ce la portavamo dietro come un cucciolo di cane. La stanza aveva una sola finestra con una grata rugginosa che dava su un cortile, nel cortile si aprivano le porte di una sartoria. La finestra era accanto alla porta del bagno e noi appoggiavamo sul davanzale saponi e bagno schiuma, mollette e rasoi, allungavamo una mano e tutto era lì in quel metro quadro. Un pomeriggio, stavo mettendo ad asciugare un paio di mutande alla grata e la saponetta, che chissà perché tenevo in mano, è scivolata giù nel cortile. Era una saponetta rotonda, profumata ed era l’unica che avevamo. Sono uscita e sono entrata nel cancello accanto, ho percorso il corridoio fino in fondo, ho guardato sotto la finestra e l’ho vista viola sul pavimento polveroso. L’ho raccolta e mi sono punta, ho guardato bene ed era solcata da spilli. L’ho afferrata con due dita sul bordo e l’ho portata in casa. L’ho messa sul davanzale, mi sono seduta e ho aspettato che arrivasse lei. La mia amica era superstiziosa, la fortuna o la sfortuna risiedevano per lei in banali oggetti quotidiani: nella strada si voltava di scatto e se la targa della prima macchina che passava era pari, sarebbe andato bene l’esame, se era dispari faceva in modo di rimandarlo, se mangiava il petto di pollo, prendeva l’osso a forcella e lo lanciava in aria per sapere se nella pancia di sua cugina incinta ci fosse un maschio o una femmina, se nel parco, una civetta cantava la notte, una disgrazia era in agguato per noi o per un vicino. E cosi via. Perdeva tempo dietro a queste storie. Io e lei abitavamo insieme da qualche mese, tutte e due indaffarate fra una biblioteca e un’altra, lavoravamo come cameriere nei bar o nei ristoranti che ci chiamavano al bisogno e correvamo dietro al professore con cui facevamo la tesi perché era incontentabile, affamato di “fonti” e documenti originali, pronto a cancellare mesi del nostro lavoro per capricci storici senza pari.

Lei è entrata ed ha acceso la luce, mi ha chiesto che cosa facessi al buio seduta con le mani in mano, le ho indicato la finestra e le ho detto di guardare. Ha guardato, le ho chiesto di toccare il sapone, lo ha toccato e ha ritratto la mano perché si è punta.

- Che cosa è? – ha gridato

- Non so, l’ho trovata così sul davanzale.

Mi guardava sgomenta, rimanevo seria, rigirava la saponetta fra le mani, comprimevo il riso in fondo alla gola.

Si è seduta e ripeteva – non è possibile -. Io guardavo in su, guardavo in giù, ho chiesto - perché non è possibile, cosa? Non avevo voglia di raccontare lo scherzo, aspettavo che lei ridesse e allora anch’io avrei riso e invece ha detto di aver fatto un sogno la notte, e in quel sogno le mie mani piene di spilli sanguinavano e cercavano lei, la stringevano, la dipingevano di rosso, poi gli spilli volavano via e come lucciole si raggruppavano a sciame, tappezzavano il soffitto e lei rimaneva nuda sotto un cielo di spilli. Ho lanciato uno sguardo in alto e la stanza mi è sembrata più fredda di sempre, ho acceso la stufa sperando che la bombola fosse ancora piena, sono andata verso la finestra e ho guardato il cortile illuminato dalle luci della sartoria, ho visto due teste di donna abbassate sulle macchine da cucire, le ho chiesto se avesse fatto la spesa, ha risposto di no.

Un'amica che scrive ogni tanto