mercoledì 28 novembre 2007

Sarajevo (di Assia Lazzerini)

Non so, una bellezza strana, triste.

Una tristezza impossibile da nascondere.

Gli occhi neri allungati dalla matita nera, sembrano avere un pozzo infinito di tristezza, di paura forse.

La storia di una vita raccontata dalla bellezza di quel sorriso e la tristezza di quegli occhi.

“ Un anno al buio, palle di cuoio, crisi di testa a momenti muoio,

Crisi di nervi, occhiaie verdi ginocchia rotte e a cosa servi?”

Le parole di Fabri Fibra mi rimbombano negli orecchi, a ritmo di rap e a tutto volume.

Sono su un tram scassatissimo, sto andando verso Sarajevo.

Il tram balla sulle rotaie, sembra che ogni volta voglia deragliare.

È tutto scritto, ma non sono graffiti sono pubblicità, una è delle sigarette con un testimonial che mi farebbe smettere di fumare.

Se non fosse per il leggero movimento degli occhi, la donna potrebbe essere immobile.

Le mani in grembo, e le gambe poggiate su un piccolo scalino, ascolta un uomo che mi pare parli in arabo e mio babbo noto linguista mi dà ragione.

La donna indossa un hijab blu e vedo la bellezza del suo sorriso, il colore dei denti e la forma delle labbra.

Improvvisamente si gira e mi guarda.

Vedo disegnarsi nei suoi occhi la sua vita; in una modesta casupola grigia con tanti bambini e un marito troppo vecchio ed egoista per occuparsi di lei e dei bambini.

Quella che mi era parsa paura non lo era, era stanchezza.

Stanchezza per una vita che non cambia mai, noia per qualcosa che sa che non succederà, rabbia per l’impotenza di cambiare questa vita che non va.

Il tram si ferma, i due scendono e io mi guardo intorno.

Davanti a me ci sono due donne che potrebbero essere madre e figlia con il nipotino.

Quella che sembra la madre tiene in collo il bambino che cerca in tutti i modi di scendere ma la presa della nonna è molto forte.

E’ una donna grossa, vestita tipo manager con un pessimo gusto: gonna verde acceso fino al ginocchio e una maglia nera che non so perché mi sembra una maglia da lutto, che la donna sia vedova.

La più giovane indossa un tailleur grigio, anonimo come quella città in cui vive.

Parlano molto concitatamente, la giovane parla facendo molti gesti e l’altra sembra sempre più scandalizzata.

Dietro ci sono due uomini, puzzano di alcool e sembra che non dormano da qualche giorno.

Sono molto simili tra loro, hanno la tuta da operai e hanno pochi capelli, mal tenuti e tendenti al grigio anche se lo strato di sporco non permette di capirlo bene.

Stanno in silenzio e quando guardo meglio vedo che uno si è addormentato appoggiato al finestrino lurido.

L’altro fuma delle sigarette sarajevske e cerca di tenersi sveglio.

Fuori, la strada è tappezzata di cartelloni di Sebreniça con immagini di donne e ragazze distrutte dal dolore.

Le case sono grigie, il fiume è grigio, il cielo è grigio.

Una città grigia, persone grigie e anonime.

E guardano me, strano coriandolo in un inverno che non vuole finire.

Non hanno ragioni per sorridere, d’altronde che ragioni puoi avere quando i tuoi parenti sono saltati su una mina e pensi che i più fortunati sono i morti?

Guardo fuori e vedo il sole che cerca di districarsi dalla rete delle nuvole, e ne viene fuori solo un raggio troppo piccolo per riscaldare quei cuori da troppo tempo freddi.

Assia Lazzerini

domenica 25 novembre 2007

Ieri

- […] hai scelto di scappare e di diventare un niente. Un operaio di fabbrica. Perché?

- Perché è diventando assolutamente niente che si può diventare uno scrittore […] Io credo che per diventare uno scrittore bisogna avere una grandissima cultura. Inoltre bisogna aver letto molto e scritto molto. Non si diventa scrittore dall’oggi al domani

- Io non ho una grandissima cultura, ma ho letto molto e ho scritto molto. Per diventare uno scrittore bisogna solo scrivere. Certo, capita che non si abbia niente da dire. E a volte, anche quando si ha qualcosa da dire, non si sa come dirlo.

- E alla fine che cosa ti resta di ciò che hai scritto?

- Alla fine niente o quasi niente. Un foglio o due con il testo e il mio nome scritto in basso

Agota Kristov Ieri

venerdì 23 novembre 2007

1904

Nel 1904 il Presidente del Consiglio è Giolitti, a Milano viene proclamato il primo sciopero generale italiano. A Sant Louis si svolge la III Olimpiade, la prima in America. Nello stesso anno viene prodotta la prima Rolls-Royce, mentre a New York viene inaugurata la prima metropolitana. Il 2 luglio 1904 muore in Germania lo scrittore russo Cechov. E mentre Agliana fa ancora parte del comune di Montale, il 29 settembre, nella frazione di Tobbiana, nasce Giuseppina Nesi, ovvero nonna Beppa.

giovedì 22 novembre 2007

Pian pianino

Pian pianino la nonna torna alla normalità. Dorme parecchio, non ha voglia di mangiare, vuol tornare a casa (anche se c'è già). Però, anche stavolta, ha fatto una pernacchia a tutti quelli che la pronosticavano alla fine della corsa. Per superare meglio il periodo di convalescenza l'hanno cambiata un po' (abbandonando la vestaglia da samurai a fiori che si vede nella foto): le hanno messo una camicia da notte verde, un golfino chiaro e una mantellina di lana color lavanda. Ha avuto da ridire perché c'era troppo colore, ha sempre portato vestiti scuri perché vedova da 70 anni e passa...

sabato 17 novembre 2007

Racconto - Un amore

Entro nell’ufficio di Giulio. Batte sulla tastiera, sorride. Cerco di sbirciare. Provo a prendere tempo, per spiare non visto. Lui alza la testa, mi saluta sottovoce. Arrossisco, forse. Chiedo. Risponde gentile. Mi fa cenno di sedere, dalla parte opposta della scrivania. Mi si tendono i muscoli del collo, mi tocco i capelli di scatto, più volte. Accavallo le gambe, metto il gomito sulla coscia, avvicino la mano alla bocca. Simulo tranquillità. Lui spalanca gli occhi, sorride, parla fluido. Non si dilunga, risponde in breve. Ci salutiamo così: accenno una stretta di mano, ma è un movimento minimo. Lui forse non se ne accorge, alza la mano e fa “ciao” come ai bambini. Ciao.

Lo vedo pochi minuti dopo in corridoio. Cammina diretto al bagno. Osservo l’andatura, guardo se le gambe camminano sulla stessa linea, se le natiche sono strette, se tiene il braccio lungo il fianco e la mano leggermente aperta verso l’esterno. Ascolto le parole dei colleghi. Cerco di carpire qualcosa: non parlano di lui. Lo vedo uscire di nuovo. Fingo distrazione. Mi giro a guardare, non c’è più. Mi rammarico per non averlo guardato ancora.

Scarico la posta, vedo il suo nome. Sento calore nel petto, forte. La pancia si contrae. Aspetto, prima di aprire la mail. La guardo tutta, distolgo lo sguardo per prendere fiato. Torno sulla lettera, la leggo d’un fiato. Dice, spiega, chiede. Aspetto a rispondere, indugio. Rileggo. Penso, rispondo. Leggo quello che ho scritto, controllo. Ancora una volta. Ancora un’altra. Scrivo l’indirizzo, scrivo l’oggetto. Rileggo. Invio.

Squilla il telefono. Pronto. Sì, certo, d’accordo. A dopo, ciao.

Entra, sorride, parlo. Parlo, parlo, parlo. Rido, molto. Anche lui. Un caffè, sì, grazie. Usciamo, camminiamo nel corridoio. Offro io. Beviamo. Parliamo, vicini. Gli sfioro il braccio, mi tocca l’altro. Ci guardiamo, per un attimo in silenzio. Rientriamo in ufficio. Proseguiamo nel lavoro, soli. Si fa tardi, è il momento del saluto. Mi alzo, giro attorno alla scrivania. Non parla quasi più, io mi fermo. Prolungo il silenzio, lo guardo. Allungo la mano sul suo viso, lo carezzo. Abbassa lo sguardo, piega appena la testa, rimane fermo. Con la mano lo prendo per la nuca, avvicino il mio corpo al suo, lui resta ancora fermo, appoggio le labbra sulla sua guancia, lui gira leggermente la testa verso la mia bocca. Appoggio con forza la mia bocca sulla sua. Ci incrociamo la lingua, metto una gamba in mezzo alle sue, allungo il braccio sinistro sul suo fianco, alzo subito la sua maglia, metto la mano sulla pelle della sua schiena. Ale, no. Prende fiato, non glielo permetto. Lo stringo, lo bacio. Sì. Mi prende lui per la testa. Mi alza la maglia, mi struscia la mano sulla pancia. Mi alzo. Mi tira giù a sedere. Si inginocchia. Appoggia la testa tra le gambe, gli passo la mano sui capelli. Mi sgancia la cinghia, mi agito, tira giù i pantaloni, deciso. Me li sfilo. Mi spoglio, anche lui. Siamo nudi, ci abbracciamo, in piedi. Mi stringe alla scrivania, passa le mani sul mio fianco, si aggancia alle natiche. Scende. Lo prende, lo tiene con la mano, lo guarda. Mi stringe, succhia. Veloce, lento, veloce. Lecca. Mi guarda, lo guarda. Forte, più forte. Vengo, lecca, chiude gli occhi.

Silenzio. Ci rivestiamo, lo accarezzo, mi bacia sulla guancia. Ci abbracciamo, ci lasciamo. Cammino nel corridoio verso l’uscita. Mi chiedo se mi sta ancora guardando. Arrivo alla porta, mi giro, lui fa “ciao” con la mano. Rido, felice. Ciao, Giulio.

lunedì 12 novembre 2007

La poesia

(Rainer Maria Rilke)

Con i versi si fa ben poco, quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe poi a scrivere dieci righe che fossero buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti, sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e a separazioni che si videro venire da lungi, a giorni di infanzia che sono ancora inesplicati, ai genitori che eravamo costretti a mortificare quando ci porgevano una gioia e non la capivamo, a malattie dell'infanzia che cominciavano in modo così strano con tante trasformazioni così profonde e gravi, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattini sul mare, al mare, a mari, e notti di viaggio che passavano alte, rumoreggianti e volavano con tutte le stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto ciò. Si devono avere ricordi di molte notti d'amore, nessuna uguale all'altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.

giovedì 8 novembre 2007

E' tornata!

Polmonite? Chi se ne frega! La nonna (103 anni e 40 giorni) è stata ricoverata qualche giorno all'ospedale con la broncopolmonite. Dopo un paio di giorni s'è scocciata di star lì, s'è alzata in piedi e ha cominciato a urlare per il corridoio pretendendo di tornare a casa. Un medico è riuscito a convincerla, con un po' di forza, a tornare a letto, ma lei gli ha tirato un mandarino in testa. Dopo s'è calmata, s'è rifatta il letto e s'è messa a dormire. Stasera ha ricominciato a mangiucchiare e ora è lì che riposa nel suo letto di casa. Vedremo.

sabato 3 novembre 2007

Racconto - L'acaro

Cammino tranquillo per i fatti miei, in quanto acaro io non ho mai disturbato nessuno, me ne sono sempre andato per i fatti miei e non ho mai dato noia a nessuno, nessuno che si sia mai venuto a lamentare del comportamento di un acaro, avete mai sentito qualcuno protestare per il comportamento di un acaro? No, al massimo per quello di una zanzara che succhia il sangue alla gente, un minuscolo essere vivente anche lei che però succhia il sangue a tutti e li infastidisce e li fa venir voglia di grattarsi ed è capace di far impazzire la gente con tutto quel suo succhiare e succhiare e succhiare; perfino una formica, una formica da sé no, ma le formiche tutte insieme sì, ho sentito molta gente che si lamentava per il comportamento delle formiche che camminano dappertutto, camminano tutte insieme, invadono le case delle persone, delle noiosissime persone che si lamentano di tutto e di tutti, avete mai sentito lamentarsi formiche, zanzare, acari del comportamento delle persone? No, invece loro sempre a lamentarsi. Comunque, ora non mi interessa, quello che volevo dire è un’altra cosa, che le persone si lamentano delle formiche, delle zanzare e dei più minuscoli esserini, ma mai degli acari. E dunque in quanto acaro e in quanto essere di cui nessuno si lamenta mai me ne cammino tranquillo tranquillo e chi ti incontro in mezzo alla mia strada? Una bolla. Doveva essere una di quelle bolle di sapone fatte da quelle persone ancora piccoline, le fanno per divertimento senza sapere quali sconvolgimenti possono creare nel nostro mondo di esserini. Ora, questa bolla, che poverina non era neanche colpa sua se era diventata bolla, io non ho niente contro le bolle in sé e per sé, ora questa bolla mi sbarrava la strada, e io ho invece qualcosa contro le bolle che mi sbarrano la strada. Io ho da fare, non posso esser sbarrato nel mio cammino da una bolla, la bolla è troppo larga per aggirarla, è troppo alta per scavalcarla, mi costringe a tornare indietro, a fare un giro lungo lungo, non vale la pena neanche fare questo giro tanto è lungo, quindi io, nel caso in cui mi trovi una bolla di fronte, io mi fermo e aspetto. In quanto acaro sono abituato a questi imprevisti, perciò sono molto paziente, molto molto paziente. Insomma, quando ti vedo questa bolla mi siedo e aspetto. E che cosa aspetto? Non c’è bisogno che lo dica, aspetto che scoppi! Le bolle crescono crescono crescono, crescono a vista d’occhio, fanno tanto le gradasse, ma prima o poi scoppiano. Le bolle sono nate per questo: per crescere, fare le gradasse e scoppiare. Io lo so e aspetto. Solo che questa bolla non vuol scoppiare. Oh! La mia vita è breve, io non posso aspettare mica una vita che una bolla scoppi per poter andare dove mi pare. Insomma, io sono più forte della bolla però mi tocca aspettare. Mi stendo per terra, mi metto di lato, chiudo gli occhi e dormo: prima o poi questa bolla scoppierà.

giovedì 1 novembre 2007

Racconto - Il funerale

E’ un giorno di festa. Ridiamo, balliamo, cantiamo, sentiamo la musica che non suona nell’aria, noi la ascoltiamo anche se non suona, andiamo al suo ritmo, al ritmo della morte, il ritmo della morte è una campana che rintocca a lungo con grandi pause, per noi il ritmo della morte è uno sfrenato girotondo di bambini, siamo felici della morte, della morte di un nostro compagno che non sarà più tra noi, a pochi metri dalla bara noi godiamo della morte di un nostro compagno che non sarà più tra noi. Uno di noi è felice perché non lo sentirà russare nella notte, uno ha già preso le chiavi dell’armadietto e ha spostato un po’ della sua roba dentro quello del vicino di letto che ora è morto, uno sa che non lo vedrà più scaccolarsi mentre mangia, molti sono felici solo perché tutti gli altri gioiscono, anche io sono felice, io so che questa morte ha cambiato i nostri giorni dal ritmo sempre uguale. Sento una grande curiosità nel vedere quello che accadrà, ho visto alcune persone nuove, alcune persone che non avevamo mai visto, non sono vestite con i camici, oggi sono tutti vestiti eleganti come a una festa, gli infermieri ci lasciano in pace, non ci dicono che cosa fare, sono impegnati a comporsi in una grave serietà, non possono mostrare, loro, la soddisfazione di aver perso un disturbatore della quiete, quest’uomo era un rompipalle che non si stancava mai di importunare qualsiasi persona entrasse nel suo campo visivo, ogni persona che vedeva, malato medico infermiere suora visitatore, ogni persona lui la importunava, quest’uomo era fastidioso per tutti, a tutti si rivolgeva con lunghi giri di parole, ogni persona a cui lui si rivolgeva era irritata dalla sua pedanteria, i suoi discorsi erano solo richieste impossibili da esaudire, non ho mai visto un uomo o una donna che non fosse disgustato da quest’uomo pedante, quest’uomo dalle parole gentili e fastidiose, le sue domande erano rivestite da un forma molto curata di gentilezza, la sua educazione era esageratamente importuna per ognuno a cui lui si fosse rivolto, nessuno ha mai sorriso quando lui si è avvicinato con le sue domande moleste, tutti hanno cercato di liquidarlo nel più breve tempo possibile, tutti contorcevano la faccia in smorfie contorte per cercare di trattenere il disgusto verso quest’uomo, nessuno ha mai sorriso con lui, nessuno ha mai sorriso di lui. Ora noi sorridiamo alla sua morte, la morte di un uomo che chiedeva sempre, scusi, dopo aver interrotto il flusso dei miei pensieri e delle mie parole, l’uomo fastidioso mi disturbava con una lunghissima introduzione a quello che avrebbe poi detto, mi scusi signore, scusi se la disturbo, scusi sa signore, mi dispiace disturbarla, la sua era un’introduzione molto lunga e sempre fastidiosa a una domanda, mi permetto di disturbarla, signore, da quando ho conosciuto quest’uomo ho imparato ad apprezzare la maleducazione, le vorrei fare una domanda, se lei permette, ha ragione, sa, stava facendo altre cose, infatti mi dispiace molto interromperla proprio in questo momento, la sua domanda avrebbe potuto esser molto breve ma lui la distendeva in una domanda molto lunga, non avrebbe mica per caso, scusi se glielo chiedo, eh, signore, non potrebbe mica portarmi per caso un bicchiere d’acqua, sa, è molto caldo, e a me, scusi se l’ho interrotta, a me con questo caldo mi si è seccata la gola, ho sempre odiato le domande lunghe, soprattutto le domande di quest’uomo fastidioso che ora non ci disturberà più, se l’è portato via la morte, alla fine è venuta la morte liberatrice a portarsi via l’uomo fastidioso. È stata una morte utile, la morte cambia le cose, scombussola tutto, e noi dai cambiamenti possiamo trovare vie di fuga, vie di fuga dai pensieri sempre uguali, io sogno morti numerosi, immagino molte morti dentro questo ospedale, immagino che dovrò combattere con un virus che ucciderà tutti, tutti si sentono male, anche io, ma io sono forte, mentre tutti cadono ai miei piedi, pazienti infermieri medici, io sopravvivo a tutti. Forse se fossi stato colpito da grandi tragedie prima di entrare in questa città avrei combattuto con grande forza e tenacia, avrei combattuto queste sciagure, tutti avrebbero compreso le grandi difficoltà nelle quali mi imbattevo, sarei uscito dalla testa piena di pensieri dolorosi e avrei lottato nella vita reale, avrei combattuto per scopi comprensibili a tutti, ora festeggio questa perdita piacevole di un uomo che è andato via di qui, lui non tornerà più, ora staremo meglio, lui è morto noi siamo vivi. Ricordo bene il funerale di mio nonno da bambino, quando chiusero la bara dentro la terra e la ricoprirono, solo allora sentii che non avrei potuto più aiutarlo a sostenersi, ero il suo secondo bastone in aggiunta a quello che aveva sempre lui, fu allora che singhiozzai forte come non avevo mai fatto nella vita di bambino, quando la bara fu calata nella buca già pronta, un uomo che non conoscevo prese una vanga e si mise a buttar la terra sulla bara di mio nonno, solo allora capii, capii che non avrei più potuto sostenere mio nonno, capii che non avrei più potuto esser buono con mio nonno, esser buono con tutti, non avrei più aiutato nessuno a sostenere il proprio dolore, da quel momento finì la mia vita di bambino, la mia vita di bambino buono, non ero più in grado di sostenere nessuno, preso dal mio dolore non avrei potuto pensare a quello degli altri, il dolore di quest’uomo fastidioso e pedante e gentile e rompipalle non è mai stato nei miei pensieri, non ho mai sentito il suo dolore, ho solo sentito il fastidio delle sue frasi, il fastidio delle sue richieste, il fastidio della sua vita nella mia mente. Forse anche quest’uomo aveva un nipote, un nipote bambino, ma oggi non si è visto, nessun nipote si è presentato a singhiozzare per suo nonno. Al funerale è venuta solo una donna molto anziana che piangeva qualche lacrima, nessuno saprà mai da che cosa sono venute quelle lacrime e quanto dureranno, noi non sapremo chi era questa donna dalle poche lacrime. Avrei voluto vedere frotte di persone piangere disperate, ma non c’era nessuno, c’eravamo solo noi, poco in più là, festeggiavamo ognuno per sé, ognuno festeggiava per un proprio valido motivo la perdita definitiva di un fastidio, finalmente una novità che alleggerisce i nostri pensieri, che cambia il ritmo sempre uguale delle giornate sempre le stesse, alla fine anche noi possiamo godere di giorni piacevoli, di giorni di festa, il funerale del nostro compagno è stata una festa, abbiamo riso, abbiamo ballato, abbiamo cantato una musica piacevole, la musica della morte, la musica del nostro compagno fastidioso morto.