domenica 14 dicembre 2008

Disciplina / 2

Non ho mai sentito che cosa fosse la stanchezza intellettuale, è c'è stato un anno in cui ho lavorato regolarmente durante dieci mesi per quindici ore al giorno.
(Sartre)
 
Mi piace condurre una vita ordinata in tutti i sensi. L'ispirazione da sola non serve a niente. Ci vuole disciplina: devi restare alla scrivania anche se non ti viene in mente nulla.
(Ken Follett)
 
Quando arrivo nel mio studio la mattina, mi preparo un tè e quando apro il mio computer per cominciare a scrivere, accendo una candela. Quando la candela si è consumata decido che è ora di smettere. Dura circa sei,s sette ore. Lo faccio perchè penso che devo mettermi un limite, altrimenti potrei passare la vita a scrivere e non avrei né marito, né figli, né nipoti, non avrei vita sociale, niente; starei tutto il giorno lì; quindi è un modo come un altro per darmi un tempo, come chi usa la clessidra io uso la candela.
(Isabel Allende)

lunedì 8 dicembre 2008

Disciplina

"Non sono i grandi pranzi e le grandi orge che nutrono, ma un regime seguito, sostenuto. Lavora pazientemente ogni giorno un egual numero di ore. Prendi l'abitudine di una vita calma e studiosa. Vi troverai innanzitutto un grande fascino e ne trarrai forza. Anch'io ho avuto la la mania di passare notti bianche. Non serve che a stancarvi. Bisogna diffidare di tutto quello che assomiglia all'ispirazione e che spesso non è che partito preso e un'esaltazione fittizia che ci si è autoimposta e che non è venuta da sola. D'altra parte non si vive nell'ispirazione. Pegaso cammina più che galoppare. Tutto il talento sta nel fargli prendere il passo che si vuole, ma per far questo non dobbiamo forzare le sue possibilità, come si dice in equitazione. Bisogna leggere, meditare molto, pensare sempre allo stile e scrivere il meno possibile."
 
Consigli di Flaubert a Louise Colet

martedì 11 novembre 2008

Realtà

"Il racconto è un'arte che richiede la più rigorosa attenzione per il reale - che si scriva un racconto naturalistico o fantastico. Voglio dire che partiamo sempre da quel che esiste o che è altamente verosimile. Anche quando si scrive narrativa fantastica la base giusta da cui partire è la realtà. Graham Greene ha detto che non riuscirebbe mai a scrivere: "Me ne stavo su un abisso senza fine" perché non potrebbe essere vero, né: "Correndo giù per le scale saltai su un taxi" perché neanche questo lo sarebbe. Mentre Elizabeth Bowen può scrivere di un suo personaggio femminile: "Si agguantava i capelli come se vi sentisse urale qualcosa in mezzo" perché questo, sì, è altamente verosimile."
Flannery O' Connor

mercoledì 5 novembre 2008

San Salvi / 23

sabato 25 ottobre 2008

San Salvi / 22

(Da La Repubblica di venerdì 24 ottobre, intervista al fotografo Gianni Berengo Gardin)
... come nel caso di un fotolibero famoso, Morire di classe, uscito nel '68 per Einaudi, del quale la mostra offre una scelta. Un libro sui manicomi. Nell'era della rivoluzione antipsichiatrica di Basaglia, che fece scoprire anche a una sinistra fin lì distratta la tragedia senza voce del disagio mentale: "Fu un'idea di Carla Cerati: voleva fare delle foto dei manicomi ma non se la sentì di andare da sola, mi chiese di accompagnarla, andai a condizione di poter lavorare anche io. Non volevamo fotografare la malattia ma la condizione dei malati di mente, l'abbandono di cui erano vittime, la negazione della loro identità: anche prima della legge 180,la vittoria di Basaglia, che nel '78 chiuse i manicomi, camicie di forza e letti di contezione erano vietati ma tutti li usavano. E nei manicomi c'era un sacco di gente fatta sparire dai servizi, dai familiari per un'eredità, o di cui oggi si direbbe solo che è esaurita. Tranne Gorizia, dove grazie a Basaglia il manicomio era già mezzo aperto, fu l'assemblea dei malati a darci il permesso, nel resto del paese vedemmo cose spaventose. San Salvi era un lager, il peggiore dell'alta Italia, mentre a Lucca Tobino disse solo "Non si può". La direzione di San Salvi ci proibì di entrare, ci riuscimmo di domenica: i malati ci fecero passare per parenti, con la complicità degli infermieri. La violenza che vedemmo ci scioccò a tal punto che una volta usciti corremmo alla stazione e salimmo su un treno senza saperne la meta. A volte il fotografo è più forte del soggetto, quella fu una di quelle in cui, al contrario, il soggetto è più forte di chi scatta.   

lunedì 20 ottobre 2008

San Salvi / 21

“San salvi in festa” dice la locandina in bianco e nero, e un sabato pomeriggio andiamo a curiosare, chi per la prima volta “tra le mura dello storico ex ospedale psichiatrico”, chi pronto a fotografare con grandi obiettivi e zoom, chi, come me, qui è di casa e vuol vedere un’altra città, in orari che non siano di ufficio.

Le foglie arancioni sopravvivono, alcune sugli alberi, molte in terra, e ci accolgono con  palloncini colorati e poca gente che chiacchiera sorridente.

All’ingresso della residenza sanitaria, su un tavolino, rimangono ancora i librettini di poesie della signora Angela. Oggi è aperto il centro La Tinaia e nelle stanze del laboratorio artistico un uomo alto fuma, ci guarda, sorride: è lui l’autore di alcuni quadri. Un altro sta piegato sul foglio e continua indifferente il suo lavoro. Le esposizioni di arte brut di questo centro girano dal 1975 in Italia e all’estero. Qualcuno chiede se si possono comprare quadri o sculture. Sì, ma solo se non girano troppi soldi. Alcuni artisti (del servizio di salute mentale del quartiere e della città) valgono migliaia di euro e diventa complicato acquistare.

Saliamo le scale seguendo una mostra fotografica. Su al primo piano, dove troviamo dolci, pizzette e bibite, i corridoi, lunghissimi, sono seminudi, i cartelli colorati sulle porte indicano il nome dell’ospite del miniappartamento. Sbirciamo dentro e anche le stanze sembrano spoglie, intravediamo le coperte a righe bianche e celesti da ospedale.

Scendiamo di nuovo giù. Alcune ragazze giovani passano il sabato pomeriggio tra i pazienti. Un bell’infermiere, in camice bianco e zoccoli celesti, fuma in giardino. Un malato s’arrabbia: “niente foto, niente foto! Non ho gli occhiali, vengo male”, mentre i più ci intimano: “una foto sola” (ma noi non la pubblichiamo, non possiamo chiedere se vogliono apparire in un blog). La poetessa si mette in posa e fa un gesto stile ballerina, con l’indice all’insù e la gamba piegata. Un'altra ospite è mezza sdraiata su una poltrona, tutta seria, non fa che grattarsi. “Bella festa, eh?” fa uno “che posto meraviglioso, è un bello stare, qui, eh? ma poi, che festa!” C’è il cinema al piano di sotto, il proiezionista annuncia i cortometraggi e i malati guardano e tacciono sulla loro sedia: una coccola una bambolina, uno è completamente piegato in avanti e non si sa se può vedere. La musica di sottofondo del cartone animato ci mette tristezza, e pensiamo a chi ha passato tutta la vita qui e non ha altre vite da giocarsi. Suor Cecilia, dentro da decenni, ancora sorride. Un uomo alto abbraccia un’infermiera. Due musicisti, in un grande stanzone vuoto, non si arrendono alla mancanza di pubblico e suonano canzoni moderne e ritmate. Piano piano la gente arriva e comincia a ballare.

Usciamo. Un signore fuori continua a girare in bici. Durante la settimana non si vede mai, ma il sabato, evidentemente, si scatena: decine di giri sui viali alberati. Continuiamo la nostra esplorazione lungo tutto l’anello dei viali di San Salvi e scattiamo qualche immagine prima che la città dentro la città si trasformi per sempre. Comincia a far buio, in lontananza si sentono rumoreggiare i tifosi della Viola. In quest’altro mondo, nell’ospedale, la festa continua.

domenica 12 ottobre 2008

Ammaniti - Ti prendo e ti porto via

Storie che procedono parellele e poi s'intrecciano, divertimento e dramma, personaggi grotteschi eppure veri, allo stesso tempo simpatici e orripilanti.
Ammaniti anticipa Come Dio Comanda, nella struttura e nello stile, e forse dà il meglio di sé in Ti prendo e ti porto via
 
 
Il 9 dicembre, alle sei e venti di mattina, mentre una bufera d'acqua e vento infieriva sulla campagna, un Uno tubo GTI nera imboccò lo svincolo che portava dall'Aurelia a Ischiano Scalo e proseguì su una strada a due corsie che tagliava i campi di fango. Superò la Polisportiva e il capannone del Consorzio agrario ed entrò in paese.
Il breve Corso Italia era ricoperto di terra trascinata dall'acqua. Il cartellone pubblicitario del Centro estetico Ivana Zampetti era stato strappato dal vento e buttato in mezzo alla strada.
In giro non c'era un'anima, tranne un cagnaccio sciancato che aveva più razze nel sangue che denti in bocca e rovistava tra l'immondizia di un cassonetto rovesciato.
La Uno gli passò accanto, sfilò davanti alle serrande, abbassate della macelleria Marconi, della tabaccheria-profumeria e della Cassa dell'Agricoltura e proseguì fino a piazza XXV aprile, il nucleo dell'abitato.
Cartacce, sacchetti di plastica, giornali e pioggia si rincorrevano sul piazzale della stazione. Le foglie ingiallite della vecchia palma, al centro del giardinetto, erano tutte piegate da un lato. La porta della piccola stazione, un edificio quadrato e grigio, era chiusa ma l'insegna rossa dello Station Bar era accesa, segno che era già aperto.
Si fermò davanti al monumento ai caduti di Ischiano Scalo e rimase lì col motore acceso. Il tubo di scappamento sputava fuori un fumo denso e nero. I vetri fumé non lasciavano vedere all'interno.
Poi, finalmente, lo sportello del guidatore si spalancò con un gemito ferroso.
Prima uscì fuori Volare nella versione flamenca dei Gipsy King e, immediatamente dopo, apparve un uomo grande e grosso con una lunga chioma bionda, occhiali da mosca e giacca di pelle marrone con un'aquila apache di perline ricamata sulla schiena.
Il suo nome era Graziano Biglia.
Il tipo stirò le braccia. Sbadigliò. Si sgranchì le gambe. Tirò fuori un pacchetto di Camel e se ne accese una.
Era di nuovo a casa.
 
 
A Ischiano Scalo il mare c'è ma non si vede. E' un paesino di quattro case accanto a una laguna piena di zanzare. Il turismo lo evita perché d'estate s'infuoca come una graticola e d'inverno si gela. Questo è lo scenario nel quale si svolgono due storie d'amore tormentate. Ammaniti crea e dissolve coincidenze, è pronto a catturare gli aspetti più grotteschi e più sentimentali, più comici e inquietanti della realtà.
 
 

lunedì 29 settembre 2008

San Salvi / 20

Sabato scorso, alla fine, qualcuno ha parlato di "stanze della memoria". Non proprio di "museo", come vado scrivendo io ai miei cinque lettori da mesi, ma è già qualcosa. (E' probabilissimo che non sia stato il primo, ma è davvero raro che se ne senta parlare). Lo ha scritto l'assessore Biagi del comune di Firenze in un articolo qui sopra riprodotto. (Per vedere meglio cliccate sull'immagine).
Comunque: queste righe mi rincuorano, benché il fatto che lo stesso assessore riponga speranza nella volontà dell'asl non mi rincuora granché.
Ritornerò sulla questione.

venerdì 26 settembre 2008

San Salvi / 19

In San Salvi/15 avevo scritto di una mail inviata a un'apposita casella di posta elettronica della ASL di Firenze. Chiedevo notizie sui progetti per San Salvi: archivio dell'ex-manicomio e eventuale museo. Tre mesi fa la mail. Non hanno risposto. Maleducati! D'altronde non sento neanche mai parlare di una cosa del genere. Non se ne fa cenno neanche nell'ultimo di tanti articoli che periodicamente vengono pubblicati sulle cronache locali dei quotidiani (La Nazione di ieri, 25 settembre)
Siccome periodicamente ho il dubbio di avere idee sballate (e la quasi totalità dei lettori del blog concorda) ho fatto un giro su internet per vedere che cosa fanno in altre città. E qualcosa hanno fatto. Perché a Firenze no?
Questo è ciò che ho trovato:
Museo del Manicomio San Servolo - Venezia
Museo Laboratorio della mente - Roma (Quartiere Monte Mario)
Colorno - Parma Archivio dell'ex ospedale psichiatrico
e proprio in questi giorni a Colorno...
Inaugurazione del Museo del manicomio a Palermo (dopo l'inaugurazione dev'esser sparito dalla circolazione perché non ne trovo traccia)
Spero che i lettori diano un'occhiata. Forse qualche visitatore capiterà qui e ci racconterà che cosa ha visto. (Come ha fatto per esempio tale Lorenzo Breda sul suo sito dopo aver visitato il museo di Roma http://www.lbreda.com/index.php?p=blog&act=archive&start=1141167600&end=1143842399)
Se poi capiterò a Roma o a Venezia ci farò di sicuro un salto.

sabato 20 settembre 2008

Roddy Doyle - The commitments

Scoppiettano le parole di Roddy Doyle, in The committments come in molti altri romanzi, non ultimi gli altri due che compongono la trilogia di Barrytown (The snapper, The van i titoli originali, la traduzione non è sempre la stessa). Un romanzo fatto perlopiù di dialoghi serrati, con il quale Doyle non solo racconta la storia di un gruppo musicale ma ci diverte mostrando con efficacia e un linguaggio di strada originale e realistico l'Irlanda povera e affascinante degli anni '80.
Vedi - disse Joey The Lips - Il soul è la musica della gente. E' gente qualunque che fa musica per la gente qualunque. E' una musica semplice. Può suonarla chiunque, qualsiasi Fratello. Il suono dei Motown è un suono semplice. Thump-thump-thump-thump. Questo è un tempo facile. Vedi? Il soul è democratico, Jimmy. Basta il coperchio di un bidone per suonare. E' la musica della gente.
Anche chi è bocciato agli esami è capace di suonare il soul, è questo che vuoi dire, Joey?
Proprio così, Fratello Michael. Non ci vuole la laurea per fare il dottore del soul.
E il jazz perché non va bene?
E' musica intellettuale - disse Joey The Lips - Musica antipopolo. Roba astratta.
E' freddo e privo di emozioni, dico bene? - fece Mickah
Dici bene. E' senz'anima. E' suono per amore del suono. Non ha nessun significato. Sono pippe musicali, Fratello
A Berrytown, un quartiere popolare di Dublino, un gruppo di ragazzi decide di fondare un complesso di soul e rythm and blues ispirandosi ai grandi protagonisti del genere, da James Brown a Otis Redding. Sono Jimmy Rabbitte, innanzitutto, manager intraprendente e sempre aggiornato sulle piu' avanzata tendenze musicali; il mitico Joey The Lips, che ha suonato con tutti i grandi del rock e tratta la sua tromba come uno strumento di Dio; Deco, il cantante che geme come il grande Otis; e ancora, Dere Scully al basso, Outspan Foster della chitarra, James Clifford, detto the Soul Surgeon, il Chirurgo dell'Anima, al piano, e Dean Fay al sassofono. Ultime, ma non meno importanti, le tre coriste, piuttosto spiritose e ancor piu' sexy: Imelda, Natalie e Bernie, che ancheggiano con grazia al suono di 'Sex Machine'. Il nome che Jimmy e gli altti scelgono per la band e' "I Commitments", per esprimere il loro impegno in modo radicale, senza mezzi termini. La loro sara' una vicenda di successi e di disastri, di splendide amicizie e di formidabili litigi, di amori del tutto imprevisti e di abbandoni clamorosi. Ma e' soprattutto lo humour - e spesso una comicita' rumorosa, irresistibile - a segnere questo romanzo che e' stato il leggendario esordio di Roddy Doyle. Lo humour, e con lo humour il linguaggio. Lo scrittore irlandese ha raccontato i giovani raccogiendo e reinventando, con risultati strepitosi, il loro parlato. E con 'I Commitments' ha fondato un luogo romanzesco: la verissima e inventatissima Barrytown, teatro dei due romanzi che completano la trilogia: 'Bella famiglia!' e 'Due sulla strada'. (Maremagnum.com)

sabato 13 settembre 2008

San Salvi / 18

Piccola escursione in un altro ex-manicomio.
Pistoia, Ville Sbertoli.
La foto sopra è presa dal sito di Enrico Tomasi, il cui reportage è all'indirizzo:
Ho qui in casa le fotocopie di tre cartelle cliniche "trafugate" da una mia amica nell'ex-manicomio. In realtà non ha dovuto far altro che chinarsi in terra a raccoglierle. Dev'essere un po' trascurato l'archivio! Tutti possono entrare, mi si dice, e prendere quello che vogliono.
B.L. , nato e domiciliato a Forlì, di anni 49, coniugato, maggiore di fanteria. Diagnosi: Frenosi congestiva con paralisi. Ammesso all'ospedale neuropsichiatrico di Pistoia il 15.7.1897, deceduto il 6.8.1897.
V.A., nato a Firenze, di anni 35, domiciliato a Firenze, celibe, professore di scienze naturali. Diagnosi: follia di persecuzione - frenosi sensoria. Ammesso il 15.9.1890, dimesso il 23.5.1891 (guarito).
B.P., nato e domiciliato a Calci (Pisa), di anni 30, coniugato, possidente. Diagnosi: ipocondriasi con idee di persecuzione. Ammesso il 27.4.1884, dimesso il 2.7.1884 (non si dice perché)

domenica 7 settembre 2008

San Salvi / 17

Dal libro "Sul confine. Scritti e dipinti da un ospedale psichiatrico", Vallecchi editore, 1964.

Io conto i giorni e le ore per arrivare alla domenica per vedere la mia figliola: vengo prima un quarto d'ora in sala così prendo i posti per sedere. Quando arriva l'ora e delle volte non viene ci piango come una bambina e non ha colpa perchè è tre mesi che ha la febbre e per ora non si sa con precisione da dove venga. Quando sta meglio viene al parlatorio, io le sto abbracciata tutto il tempo che ci sta: mi fa piacere di vedere tutte le malate che stanno con i suoi parenti e conoscenti. Ora sto con ansia aspettando il parlatorio di domenica, che spero venga a trovarmi e spero che la febbre se ne sia andata.

 

Il parlatorio è un posto libero apposta fatto per venirci le persone a mangiare: domani è venerdì e c'è il parlatorio. Il parlatorio c'è tre volte la settimana, il venerdì, il martedì e la domenica: il parlatorio piace tanto alle persone inferme. Il parlatorio è a volte grande o piccino secondo l'aspetto della persona stessa. Al parlatorio spesso ci portano le paste alla crema cioccolato e panna. Al parlatorio c'è molta gente che fa a volte della confusione di molto esagerata.

 

Io l'ho di rado il parlatorio, verranno, si o no, quattro o cinque volte in un anno. Sui primi tempi che ero ricoverata venivano anche da me quasi tutte le domeniche, ma col tempo hanno principiato ad annoiarsi, si vede, e hanno diradato il parlatorio. Quante cose ci si può dire in un parlatorio! I miei non vengono perché fa freddo e hanno da sbrigare faccende.

 

La mia giornata più bella da quando fo l'inferma è il lunedì quando vado sempre al cinematografo; poi la domenica quando vedo le mie genti venirmi a trovare; poi quando andrò a casa per sempre; dopo alla rinascita di un nuovo secolo quando avrò diciotto anni e non trentacinque anni come ora che ho da compiergli il 4 luglio 1962. Poi quando ero piccina e andavo all'ospizio la mattina, andavo al mare a fare il bagno, vicino alla spiaggia nelle piccole onde più vicine; poi quando tornai casa dopo un mese, andai a comprare una barchettina a vela in una bottega di Viareggio per il mio fratellino Fergus: e arrivata alla stazione presi il treno.

 

... anche in ospedale mi è piaciuto molto passeggiare ma ho paura delle iniezioni e sono stata male per le fissazioni. Ho avuto tanti parlatori, sono stata nelle celle e a dormire anche in terra ma sempre molto fissata, sicchè l'ospedale non mi è piaciuto molto. Qui finisce la storia della mia vita, tra poco andrò via e morirò e non ci sarò più come tutti. Se non c'era la morte quanto mi sarebbe piaciuto vivere non si sa. Invece dopo la storia della nostra vita ci tocca a morire. La vita è un sogno e chi l'ha passata bene li rincresce di morire. Io poco bene, e mi par mill'anni d'esser bell'e morta.

 

Gilberto come stai bene o male? Ti senti felice lontano da tua moglie? Vorrei esserti vicino per prenderti una mano e farti sentire i palpiti del mio cuore. Chissà se quella persona che ti sta accanto, ti aspetta come ti aspetto io: con i palpiti vivi come una colomba che sta vicino alla campana e scappa al suo suono perchè è troppo forte. Vedo ancora il borgo Allegri con tutti quei visi di ragazzi che giocano col pallone e gli uomini a bocce, ti ricordi? E io sempre accanto a te! E' il tramonto, si vede piovigginare piano piano come per chi sogna avere un ombrellone e mettersi in riparo, per essere baciata sopra le gote bagnata dalla pioggia: com'è bello l'amore! Fin da bambina ho amato l'uomo: mi buttavo in ginocchio dopo aver pregato, e mi veniva a baciare, mi rincorreva e mi dava le spinte, mi faceva piangere per baciarmi. Chi legge questo scritto non si faccia cattivo pensiero, perché amore è bello, amore è tutto ciò che la natura emana. 

    

Sono finalmente guarita, mi sento bene veramente, spero di andare a casa presto il giorno non lo so. La mia mente ora è limpida, sgombra, non c'è più nessuna nube che turba, di questo me ne sono resa ben certa. E sono contenta. Desidero andare a casa per stare col mio bambino. L'unica cosa che meriti  veramente tutto di me stessa, il meglio di me stessa. Ora sono stanca di star qua se pure abbia ritrovata la salute, ora mi sento di tornare a casa se Dio mi aiuta, giacché sto bene dovrei andarci presto, io vorrei andarci prestissimo. 

mercoledì 6 agosto 2008

Corso e vacanza

Sette scrittori, più uno, e una casa di campagna, tre insegnanti, una comica, una viaggiatrice, un giornalista, un'editrice, due impiegati.
Un corso e una vacanza, la scrittura la mattina e le passeggiate del pomeriggio, talvolta i concerti la sera o un branco di daini la notte.
Cechov e Carver, Flannery O' Connor e sua zia, Agota Kristof, Cassola e Flaiano.
Incipit ed esercizi di stile, il dialogo, il discorso indiretto, i personaggi, il bozzetto narrativo, la teoria e le esercitazioni. E le correzioni.
La camera troppo piccola, la colazione sulla campagna toscana, il farro tutte le sere, le barzellette.
Il prete showman, non c'è movimento, l'altare fa cacare.
Il pranzo finale e la foto di gruppo.
Saluti e baci e vediamoci presto.
Fine..
(piccoli appunti dal primo corso di scrittura creativa in Casentino)

mercoledì 16 luglio 2008

Memoria - di Beatrice

Una giornata come tante altre, fatta di giochi e di spensieratezza, ma anche di paure e preoccupazioni che anche i bambini molto piccoli provano sebbene gli adulti sembrino averlo dimenticato. Una giornata come tante altre conclusasi nella mia cameretta, così accogliente, così familiare, così sicura. E il mio letto, dove la coperta fa da padrona con i suoi quadri dai colori accesi mentre la rimbocca candida del lenzuolo vi si adagia timidamente sopra ricadendo in misura perfettamente uguale sul lato destro e sinistro. Una persona a me familiare vicina, così vicina da darmi la certezza che niente potrà accadermi. Poi la mano adulta prende la mia che fiduciosa si lascia guidare, piano piano, lungo la gamba, come una carezza che ingenuamente concedo. E continuo a farmi guidare anche quando di bello non c'è più niente, neppure la mia certezza di essere al sicuro. Una giornata come tante altre, che non mi è concesso dimenticare.

venerdì 4 luglio 2008

Le interviste impossibili - silviodulivo intervista Thomas Bernhard

  • silviodulivo: Thomas, in vita sei stato sempre fortemente critico nei confronti dei tuoi connazionali austriaci, tanto da lasciar scritto nel testamento: “Nulla, né di quanto pubblicato da me stesso in vita, né del mio lascito, ovunque esso si trovi, indipendentemente dalla forma in cui sia stato scritto, potrà essere rappresentato, stampato o soltanto letto in publico per la durata dei diritti d’autore all’interno dei confini dello Stato austriaco, comunque tale stato si definisca. Sottolineo espressamente di non voler aver nulla a che fare con lo Stato austriaco, e mi oppongo non solo a qualsiasi forma di intrusione, ma anche ad ogni avvicinamento di tale Stato austriaco alla mia persona e al mio lavoro – per sempre”. Sottoscriveresti queste parole anche ora, lì dove ti trovi?
  • Bernhard: Sono stato discriminato fin da bambino, a scuola, in Germania, perché austriaco. I bambini nazisti mi minacciavano solo perché austriaco e non lo dimentico neanche ora, i bambini della Germania mi minacciavano senza sosta solo perché io ero austriaco. Tutti i popoli germanici, tutti i popoli nordici sono da disprezzare, non valgono quelli mediterranei, i popoli mediterranei sono tutti disdicevoli, i popoli mediterranei sono tutti lodevoli
  • silviodulivo: Non ti sembra di esagerare? A questo punto potresti darti una calmata e cercare di essere un po' obiettivo. Almeno ora che sei morto.
  • Bernhard: Il mio è un fanatismo dell'esagerazione, in questo fanatismo dell'esagerazione ho sempre trovato appagamento. Ho educato a tal punto la mia arte dell'esagerazione che a buon diritto posso definirmi il più grande artista dell'esagerazione.
  • silviodulivo: Insomma, con te non si può parlare neanche da morto, esageri sempre e ripeti sempre le stesse cose
  • Bernhard: Io continuo a ripetere le stesse cose tutto il giorno anche da morto, a me piace stare in un angolo buio e ripugnante di questo posto di morti nel quale mi trovo e parlare con alcune persone, dico sempre le stesse cose, ripeto sempre le stesse cose a queste persone che sono costrette ad ascoltarmi in questo angolo ripugnante nel quale mi trovo.
  • silviodulivo: Trovi ripugnante anche il blog nel quale, tuo malgrado, sei precipitato?
  • Bernhard: I miei rapporti con questo blog sono sempre stati pessimi, sono i peggiori rapporti che abbia mai avuto in vita mia, in morte mia, per essere più precisi. I rapporti che ho intrattenuto con gli scrittori di questo blog e con i lettori di questo blog sono peggiori ancora di quelli avuti con i miei genitori e con mia sorella, sono addirittura peggiori dei rapporti intrattenuti con i bambini nazisti che mi oltraggiavano a scuola
  • silviodulivo: E' bello sentir parlare così il proprio ospite
  • Bernhard: Per me questo blog è disgustoso, mi crea una nausea continua che non mi tolgo per giorni dopo avergli fatto visita, e poiché io faccio visita spesso a questo blog e agli scrittori di questo blog io ho una nausea continua fin dalla creazione di questo blog. In fondo questo blog io lo disgusto e non ne posso fare a meno. Ogni volta che vengo a leggere questo blog sono disgustato per esser venuto qui e però so che la colpa è mia, è mia perché io vengo in questo blog e ne sono irresistibilmente attratto. In fondo io non saprei stare senza questo blog, non potrei farne a meno, io ripugno questo blog e al contempo ne sono irresistibilmente attratto e...
  • silviodulivo: Sì, ora diamoci un taglio, Thomas, questo è un post, non puoi andare avanti così paginate e paginate. Dimmi piuttosto: che cosa pensi del fatto che non sono ancora riuscito a terminare un libro?
  • Bernhard: Tu credi di poter dare avvio a un libro e invece non ne sei in grado, tutto è sempre contro di te e contro quel libro, così continui a rinviarlo e non trovi mai il tempo, in questo modo tanti lavori intellettuali che dovrebbero essere scritti non vengono mai scritti, tanti abbozzi che per tutto il tempo, per anni, per decenni abbiamo in testa, restano nella nostra testa. Adduciamo tutte queste ragioni possibili per non dover cominciare, quando invece dovremmo incominciare. La tragedia di chi vuol mettere qualcosa per iscritto è che continua a invocare chi ostacola la sua scrittura, la tragedia che è al contempo una perfetta e perfida commedia
  • silviodulivo: Però tu sei riuscito a scrivere decine di romanzi e una sterminata serie di altre opere: Il respiro, Il freddo, La cantina, Estinzione...
  • Bernhard: Quando abbiamo le frasi in testa non abbiamo ancora la certezza di metterle sulla carta. Le frasi ci fanno paura, prima ci fa paura il pensiero, poi la frase, poi che probabilmente non abbiamo più in testa questa frase quando vogliamo annotarla. Molto spesso annotiamo una frase troppo presto, poi una troppo tardi; dobbiamo scrivere la frase nel momento giusto, altrimenti va perduta
  • silviodulivo: E come si fa?
  • Bernhard: Ci lasciamo avvincere da un tema e ne restiamo avvinti per molti anni, e se capita ci lasciamo soffocare da questo tema...
  • silviodulivo: per esempio, io con san Salvi?
  • Bernhard: ... perché non lo abbiamo affrontato abbastanza presto o lo abbiamo affrontato troppo presto. Il tempo distruggge tutto, qualsiasi cosa facciamo...
  • silviodulivo: fermati un attimo, non mi sei d'aiuto, ascoltami
  • Bernhard: ... sistemi gli scritti e i libri necessari per il tuo lavoro sulla scrivania in modo tale da poter fare affidamento sulla giustezza, quindi sulla legittimità della loro disposizione. Probabilmente...
  • silviodulivo: Thomas, ascoltami perfavore, non possiamo tirarla così a lungo, non è uno dei tuoi romanzi, è un post
  • Bernhard: ... probabilmente non sei mai riuscito a cominciare il tuo lavoro solo per questo, perché i libri e gli scritti sulla tua scrivania non sono disposti nella maniera giusta
  • silviodulivo: Thomas!
  • Bernhard: ... Quando entri nella tua stanza c'è già una risma di carta sulla scrivania. Parti e la risma non c'è più, perché l'hai scritta tutta, ma un poco alla volta l'hai buttatata via tutta. Forse è una fortuna!...

lunedì 30 giugno 2008

San Salvi / 16

"La dismissione dell'ospedale di San Salvi non può né deve significare la dismissione della memoria di questo luogo di sofferenza proprio perché la memoria deve allontanare il ritorno del dolore tra queste pareti. La ricchissima biblioteca scientifica posta nella palazzina della direzione dovrà costituire il nucleo di partenza per costituire il Museo di San Salvi dove raccogliere strumenti di terapia, archivi e altro materiale relativo alle pratiche psichiatriche prima della revisione e successiva chiusura dei manicomi"
"La dismissione psichiatrica in corso evidenzia il rischio di della dispersione del materiale, ma soprattutto della memoria delle pratiche di cura psichiatrica. Si prevede la ristrutturazione di parte di un padiglione sanitario in prossimità della biblioteca per ospitare il museo, raccogliere il materiale di terapia, archivi e documentazione ancora presente nel complesso e ampliare la biblioteca. Va raccolto inoltre tutto il materiale di rilievo e progetto sviluppato sull'area"
"La costituzione di un museo di San Salvi permette di costruire un luogo per la conservazione della memoria degli strumenti, delle pratiche terapeutiche ma soprattutto della sofferenza che ha risieduto in questo luogo di vita di una società segregata."
"Importo lavori: lire 500 milioni.
Finanziamenti: comunitari.
Tempi di realizzazione: 1 anno"
tratto da "Progetto Pilota Urbano, Riabilitare San Salvi", Comune di Firenze, aprile 1996

giovedì 26 giugno 2008

Maria Corti - L'ora di tutti

Gli scrittori danno il meglio di sé quando si immedesimano in un uomo? E viceversa: le scrittrici raggiungono il proprio apice quando il protagonista è una donna? Questo eccellente libro, L'ora di tutti, della scrittrice e critica letteraria Maria Corti, sembra confermarlo. Cinque personaggi, uno per capitolo, che raccontano lo stesso episodio: l'invasione dei turchi a Otranto nel Quattrocento e la presa della città. Cinque punti di vista diversi, cinque racconti perfetti, ma sopra di tutti il capitolo nel quale parla in prima persona una donna, Idrusa.
"Il soggetto è storico: la presa da parte dei Turchi, nel tardo Quattrocento, della cittadina pugliese d'Otranto. Ma io, più che il soggetto, lo chiamerei lo sfondo, tutt'altro che decorativo ma vivo e vero nel suo tumultuare di galeoni, di scimitarre e di bombarde, se non addirittura un felice pretesto, tanto per dar motivo alla mano, e soprattutto all'estro e al cuore, di muoversi e rappresentarci una delle più belle Romanze, nel senso antico e nobile della parola, da noi apparse: una storia la quale non tocca tanto l'epica esteriore dell'avvenimento, bensì, l'altra, quella molto più nascosta ed intima di Coloro, uomini e donne che ne furono i concreti protagonisti: gli Eroi, per tornare alle definizioni enfatiche, e i Martiri. La Corti, con l'udito fino di chi è mosso da amore, ha saputo ascoltare alcune di quelle 'antiche voci' (di quelle brillanti giovinezze, di quelle vite), del resto identiche alle figure d'oggi, e in altrettanti racconti in prima persona, concatenati dal motivo conduttore della battaglia, è riuscita a comporre uno spartito musicale tra i più affascinanti, dove l'intera Terra d'Otranto 'suona' vivissima non solo nella sua realtà storica di allora, ma in quella, anche geografica ed etnica, d'oggi e di sempre. Una Terra d'Otranto che appunto per la sua concretezza diventa poeticamente la terra delle passioni più vere, e dei più genuini sentimenti dell'intera umanità nostra".(Giorgio Caproni, "La Nazione", 30 gennaio 1963)

martedì 24 giugno 2008

Il quaderno - di Homo faber / 4

(4 - continuazione e fine) IV POSTILLA DI DIVERSO AUTORE Ho trovato questo vecchio quaderno di scuola nascosto dietro una trave del soffitto della casa colonica dove sto quest’anno trascorrendo le vacanze estive. Nascosto, si fa per dire: mi ha fatto tornare in mente la famosa ninfa che si inoltrava nella selva, non per sfuggire al fauno, ma per farvisi seguire. La copertina nera e il bordo delle pagine rosso ne fanno uno di quei quaderni che alle persone della mia generazione riempiono il cuore di nostalgia. Da qui la curiosità che mi ha invogliato alla lettura. Quando ho finito, una semplice esclamazione: mah! Poi mi sono chiesto, senza usare l’eufemismo: che cavolo è questo? E quindi, con maggior contegno: diario fedele o pura letteratura? Spingeva a propendere per la seconda ipotesi la cura stilistica, incompatibile con la tempesta di emozioni che avrebbe provato un partecipante effettivo agli eventi descritti. La congettura sembrava confermata dall’intitolazione del testo e dei tre capitoli nei quali era suddiviso. Ma siccome sappiamo bene che le opere di fantasia contengono spesso dei riferimenti alla realtà, ho pensato che mi sarebbe stato forse possibile identificarne l’autore. Diciamo la verità: ho provato un senso di solidarietà con quello sconosciuto, non per le sue intemperanze, ma per i disagi che avrà provato. In questa stagione solo Angli, Sassoni, Goti, Variaghi ed altri appartenenti alle tribù del nord sanno apprezzare una campagna nella quale imperversano il caldo e la noia. Io ci sto passando, e almeno sono vegetariano e scapolo, anzi single, come si dice ora. Ma lui, con quello strano regime alimentare. E poi le corna. In definitiva le ricerche mi sono apparse un grato diversivo. Ho cominciato le indagini nel villaggio poiché adesso la casa appartiene ad una società non meglio definita ed io l’ho avuta tramite un’agenzia: da quel lato poco da fare. Fedele alle migliori tradizioni investigative ho cercato il postino, che poi è una postina. Sono così riuscito a sapere che il vecchio proprietario della casa, un vero signore, giovane, alto, robusto, veniva tutti gli anni a passarci l’estate, da solo. Un bell’uomo, ha voluto precisare la portalettere. Da lei ho pure saputo che una donna del posto aveva cura della casa in sua assenza, la preparava quando lui preannunciava il suo arrivo e si occupava delle pulizie quando era lì, soprattutto se c’erano degli ospiti. E cucinavo, ha aggiunto la casiera quando l’ho rintracciata, confermando che si trattava di un vero signore, giovane, alto e robusto, ma bello no davvero. Ho accertato dunque che il proprietario non doveva lesinare le mance e che le due donne non avevano gli stessi gusti in fatto di uomini, per quanto me ne potesse importare. Però mi sono chiesto se una delle due, e quale, mi avrebbe considerato bello, tenendomi il dubbio per me. Dalla casiera ho saputo che di visitatori ne venivano spesso e non si trattenevano per più di qualche giorno. Un anno però..., sì, un anno era stato suo ospite un signore, vero ovviamente, per un mese o più, e quello sì che era bello. E c’era la moglie, bella pure lei. Ho immaginato come sarebbe stato il cane, se ne avessero avuto uno. È opinione diffusa fra gli abitanti di quel paese, e chi potrebbe dar loro torto, che per passare un paio di mesi in una casa colonica non è necessario conoscere vita morte e misfatti dei precedenti abitatori. Di conseguenza con le mie domande stavo facendomi una fama poco lusinghiera. In ogni modo qualcuno mi ha consigliato di parlare col parroco, che la moglie dell’ospite frequentava assiduamente nel periodo che erano qui. Ci mancava un prete a complicare la faccenda, mi sono detto. Quando però l’ho visto, anziano, rinsecchito, ingobbito, emanante un acuto odore d’aglio a tre metri di distanza, non mi è sembrato tipo da tresca amorosa. Anzi, ho pensato che per frequentarlo assiduamente era necessaria una grande fede. Mi ha squadrato sospettoso e si è rassicurato dopo che gli ho menzionato i miei rapporti con un’importante università della capitale. Ho omesso di precisare che ero fra i firmatari di una certa lettera indirizzata al papa in occasione di una sua visita. Dal prete ho saputo dunque che quel tale era il direttore di un importante Istituto di Credito, che fumava la pipa, che era una persona cordiale ed educata come ce ne sono poche, di questi tempi poi (ahimè, il relativismo dilagante)! E un buongustaio. Uno insomma che se si suicidava lui, veniva fuori dal ritratto che me ne facevo, allora cosa dovrebbero fare gli altri? La moglie, che si chiamava, si chiamava..., macché, Lucrezia no di certo, era una donna bella, non nel senso mondano, quello lui non poteva dirlo. Era una persona di buon cuore, un’anima eletta con un gusto raffinato per gli addobbi floreali. E questa? mi stavo chiedendo, ma poi mi ha chiarito che tali sue doti si erano manifestate nella ricorrenza del patrono del villaggio, Santo Alessandro martire, che come tutti sanno (non gli ho detto che ero l’unica eccezione) cade il 26 d’agosto. In quell’occasione il contribuito della bella (non in senso mondano) signora all’organizzazione dei festeggiamenti era stata preziosa. Due persone insomma, teneva a precisare il sacerdote dopo le mie velate insinuazioni, la cui integrità morale non andava messa in discussione ed alle quali non era lecito attribuire turbe caratteriali, checché ne sentissi dire in giro. A dire il vero non avevo capito quali erano le doti del marito incompatibili con le turbe, delle quali niente in giro si diceva, se direttore di banca o buongustaio o fumatore di pipa. Della moglie l’amore per i fiori. A quel punto restava da informarsi sul lago, vincendo le resistenze degli indigeni. Tanto la nomea di bizzarro impiccione già me l’ero fatta. Così ho saputo che dopo il Matto l’unica vittima è stata una bambina di dodici anni, nell’estate di qualche anno fa. Un paio di giorni dopo la sua scomparsa si è cercato nel lago. Il corpicino è stato trovato sul fondo, immerso nel fango. La morte non era dovuta ad annegamento, bensì, come ha rivelato l’autopsia, a strangolamento, dopo che le era stata usata violenza. L’assassino non è mai stato scoperto. Avrei potuto completare le indagini verificando se l’anno del crimine coincidesse con la presenza nella casa colonica della coppia ospite, ma me ne sono astenuto: le mie indagini terminano qui. Adesso sono sotto la pergola, ad aggiungere questo quarto capitolo al quaderno, che poi riporrò dove l’ho trovato. Se il colpevole sta aspettando che qualcuno lo rintracci e metta fine alla sua attesa angosciosa, non sarò io a fargli questa grazia.* * Nota dell’Autore: ho trovato il quaderno, che trascrivo fedelmente senza niente togliere o aggiungere, dietro una trave del soffitto di una casa colonica immersa nella campagna toscana.

venerdì 20 giugno 2008

Il quaderno - di Homo faber / 3

(3 - continuazione)
III L’ABISSO Mi pento di essere venuto in campagna, e per non essere frainteso devo precisare: a parte le vicissitudini coniugali. Il motivo primo che mi ha spinto a farlo è stata l’illusione di sfuggire al clima torrido e umido che rende invivibile la città in questo periodo, ma il caldo che sto soffrendo qui non ha niente da invidiare all’afa cittadina. L’unico mio rifugio è questo pergolato, popolato tuttavia da fantasmi che offendono la mente e negano ristoro al corpo, senza che mi sia dato d’invenire una condotta adeguata ad affrontarli. I miei pensieri, reputati un tempo i più fedeli alleati, sono armi dalla lama ottusa; la ragione, tanto esaltata dai filosofi, serve solo a giustificare azioni abominevoli con le loro conseguenze nefaste; la cultura, deputata ad affinare il giudizio, è niente più che nostalgia di epoche tramontate. Non so come potrò riprendere il cammino, in qualsiasi direzione esso si dipani, poiché dopo quanto è successo non mi è consentita ormai un’esistenza che scorra nei canali consueti del vivere comune, né tornerò a sognare, quando la realtà ha raggiunto e superato le più ardite fantasie, né seguiterò per la strada appena imboccata, ostruita in via definitiva da ciò che ieri è accaduto. Un buon pranzo e un’ottima fumata, e poi ho lasciato la pergola per salire in camera, desideroso di ritrovare le emozioni tanto sconvolgenti del giorno prima, munito di sentimenti artificialmente preparati che me ne avrebbero consentito la fruizione. Entrando nella camera ho visto negli occhi di Lucrezia, che non dormiva e mi stava aspettando, di nuovo del terrore ma non un terrore spontaneo, come se anche lei, desiderando che si ripetesse il rito profanatorio nel quale era la vittima consenziente di un torturatore poco convinto, avesse predisposto i suoi sentimenti allo steso modo di chi assiste alla proiezione di un film dell’orrore ed è preparato al soprassalto. Di nuovo l’ho colpita, di nuovo l’ho spogliata strappandole gli abiti di dosso, e non è rimasta che la carne, debole e rassegnata, disposta a subire con stanchezza la violenza artefatta e bonaria di un carnefice che si scusa con il condannato per il tormento al quale il suo dovere gli impone di sottoporlo. Ma poi c’è stato il momento in cui le mie mani si sono strette con gesto disperato intorno al suo collo, offerto e fragile, ed ho sentito sotto le mie dita la pelle soffice a coprire una cartilagine cedevole e facile da spezzare. Per un attimo è stata autentica la mia volontà di colpire e ferire, da lei percepita tanto chiaramente che il suo terrore, palese negli occhi sbarrati, è divenuto sincero quanto il mio odio, mentre il suo corpo era percorso da un brivido violento come per una scossa elettrica, come albero percosso dal fulmine. Ci siamo trovati uniti in un orgasmo convulso e le mani hanno allentato la presa, non so grazie a quale istinto di salvamento, non senza lasciare sulla pelle le tracce della pressione. Poi siamo rimasti lì, inerti ed accasciati, due burattini ai quali, una volta calato il sipario, siano stati sciolti i fili, e di reale in noi non c’era che il sudore dei nostri corpi. Mi chiedo adesso cosa ci rimane, quale sarà la prossima tappa, e non voglio una risposta, non voglio che ci sia una tappa ulteriore, perché ne ho paura. Stamani ho vagato a lungo per la campagna, prima che sorgesse il sole, quando già avevo rinunciato alla speranza di trovare nel sonno un po’ di tregua alla mia angoscia, e sono giunto al lago, se così si può chiamare quella grossa pozza artificiale. Lago lo chiama la gente del vicino villaggio, che odia quel posto ed evita perfino di parlarne da quando un tale, non per nulla soprannominato il Matto, vi è annegato, senza che si sappia se per incidente o atto volontario. Mi sono seduto vicino al bordo e sono rimasto là per non so quanto tempo, immobile ed assorto, fino a che un sole cocente non mi ha costretto ad alzarmi per un ritorno penoso, ma durante il quale ho espulso insieme al sudore la malinconia ed ogni pensiero funereo. Dopo un lauto pranzo, cotolette di agnello a scottadito il piatto forte, che ha confermato nel nostro ospite una innegabile e squisita attenzione per la tavola e nella donna che cura la casa e sembra riparare a tutto delle ottime doti culinarie, sono tornato qui a scrivere, ma non posso scacciare dalla mia mente l’immagine ossessiva del lago. È vero che l’impressione che se ne riceve è sgradevole, soprattutto per le sponde di sterrato che lasciano figurare un fondo melmoso, ma ciò non inibisce il fascino inusitato che su di me esercita. Se chiudo gli occhi rivedo quelle acque così calme e nello stesso tempo così minacciose, ne subisco l’attrazione funesta, odo il richiamo imperioso e ineludibile del fondo che non ho neppure visto, ma che mi fingo nel pensiero, quasi il mio corpo fosse già stato una volta, in tempi remoti, imprigionato in quella massa fangosa, privo di vita cosciente. So che Lucrezia in questo momento mi sta aspettando, consapevole del pericolo che correrebbe se ripetessimo l’esperienza erotica, e per ciò ancor più eccitata, ma non salirò da lei. Questi due ultimi giorni sono stati forse gli unici della mia vita che ho vissuto davvero, ma non ho il coraggio di continuare: avendo intravisto il sentiero che il mio destino ha tracciato, al pari di un eroe greco lo seguirò. Meccanicamente, senza rendermi conto, ho posato la pipa per terra, lasciando che si spengesse. (continua)

giovedì 19 giugno 2008

Il quaderno - di Homo Faber / 2

II LA VITA NOVA La campagna è anch’oggi affocata nel sole, l’ora è la stessa, lo stesso pergolato; la pipa è un’altra perchè quella usata ieri è umida e lo sarà a lungo; il coniglio arrosto che avevamo a pranzo richiede una digestione meno laboriosa delle chiocciole e il lavoro che la mia mente deve sostenere è più lieve, per cui, se ora di nuovo sto scrivendo, ma con diverso spirito, non mi ci spinge l’esigenza di affrancarmi dal peso greve di pensieri molesti e invece il gusto di ripercorrere e meglio assaporare delle sensazioni eccitanti. Ciò che è cambiato è il rapporto con Lucrezia, al quale ho dato, con decisione unilaterale, un’impronta nuova, chiara e ben definita, pur se devo ammettere che lei non ha frapposto ostacoli, ma ha piuttosto assecondato questo corso inedito. Ricordo con precisione assoluta, rivivendolo per la seconda, terza, quarta volta, ciò che ieri ho fatto quando mi sono alzato da qui, che oggi, lo so bene, rifarò di nuovo appena la pipa sarà vuota, e che posso riferire soltanto con questa espressione: ho usato violenza a mia moglie. La combinazione di parole, imposte dall’uso nella loro reciproca fissità, acquisisce il valore di un’etichetta garante del contenuto e attribuisce alla mia azione così catalogata una concretezza psicologica che funge da agente lievitante, quale enzima nell’impasto, per la mia intima soddisfazione. Le ho usato violenza come ad una donna incontrata per caso in strada, alienando dal mio agire ogni sentimento personale nei suoi riguardi, allo stesso modo che un bruto, immagino, dà libero sfogo ai suoi istinti più bestiali quando una sconosciuta infiamma accidentalmente ed involontariamente i suoi sensi. Quante volte lo avevo sognato! Quante volte, sdraiato su di una poltrona, o sul letto prima di addormentarmi, ho fantasticato di scene simili, con donne appena conosciute e subito desiderate, prima che si dileguassero, se non coincideva l’orientazione dei nostri passi, o che un felice approccio favorisse una storia per amicizia o amore! Non avevo mai dato peso a simili fantasie, rimuovendole dalla mia coscienza appena mi alzavo o il sonno vi metteva fine; ma ieri sono riemerse con prepotenza, quando ho dovuto riconoscere che ciò che stavo facendo era il risultato logico e fatale di un’esistenza di desiderio. Sono salito in camera e Lucrezia era sdraiata sopra al letto, vestita con una gonna cortissima ed una camicetta semi trasparente. Dormiva coricata su di un fianco, le gambe distanti fra loro e le braccia stese come se stesse correndo, il volto, che non riuscivo a vedere, girato verso il cuscino. In quel momento, strana circostanza, godevo di una calma eccezionale, giacché la mia mente era fredda e lucida, ad efficiente servizio di un corpo nel quale l’eccitazione stava raggiungendo vertici inimmaginabili per la cosciente precognizione di ciò che stavo per fare. Dopo una breve attesa durante la quale, immobile ai piedi del letto, mi sono concesso un’ultima pausa pleonastica destinata a fugare ogni dubbio residuo, se ve ne fossero stati, mi sono avvicinato, l’ho afferrata per un braccio voltandola verso di me, l’ho colpita con forza sul viso, ed ho visto chiaro nei suoi occhi lo stupore del risveglio diventare al riconoscermi muto terrore. Temevo che gridasse, ed ero pronto ad impedirglielo in qualsiasi modo, ma non è stato necessario, forse perché il senso di colpa le aveva fatto presagire una qualche punizione che era disposta ad accettare. L’ho colpita di nuovo, e quando ho visto le sue labbra imporporarsi mi sono gettato su di lei strappandole gli abiti di dosso. Poi tutto si è confuso: mi sono restate immagini sfocate di atti, gesti, rumori, movimenti e invece chiare impronte delle sensazioni sconvolgenti che ho provato e che continuano a conturbarmi. Io stavo nel letto, sopra la donna che amavo ed allo stesso tempo odiavo, alla quale elargivo piacere ed infliggevo sofferenza, ed ero io la donna che subiva inerte la violenza provandone terrore e insieme godendone, e del pari ero io, come tre giorni prima, una terza persona presente nella stanza che immobile e distaccata osservava la scena brutale. Ero tutte queste persone, e nella progressiva dilatazione della mia coscienza ero il letto, e la stanza con i suoi mobili, di più, ero tutto il paesaggio fuori dalla finestra inaccessibile al mio sguardo, di più, ero il sole candente ed il cielo infocato e la terra sitibonda, di più di più, l’universo intero ero io. L’improvviso afflosciarsi di ogni vigore, raggiunto e superato il culmine della frenesia lubrica, mi ha ricondotto alla realtà, al cospetto di Lucrezia il cui volto esprimeva un appagamento profondo, una gratitudine sincera, una devozione assoluta. Devo confessare che l’aver messo a nudo la mia natura più intima, ignota a me stesso fino ad allora, mi ha lasciato in uno stato di vago sbigottimento al quale non riuscirò a reagire, almeno finché le sensazioni provate perdureranno con tanta vivezza da escludere una profonda riflessione. Ho cercato di non dare troppo peso alle mie incertezze, di rimuovere i sensi di colpa, adducendo senza sforzo gli argomenti a sostegno di un comportamento che non esiterei a definire moralmente puro e socialmente accettabile. Nella società in cui vivo la violenza non è condannata in quanto tale, ma solo se è diretta a minacciarne la stabilità, mentre in determinate circostanze è perfino auspicata, se non imposta. I poliziotti, i giudici, i carcerieri, sono sempre e soltanto mossi da sete di giustizia o soddisfano altresì nel punire i colpevoli l’anelito più o meno inconscio di spaventare, soggiogare, tormentare? Il mio desiderio è affiorato alla coscienza grazie al tradimento di Lucrezia ed alla sua accettazione del castigo, che hanno scatenato la mia brutalità, giustificandola e mettendo a tacere ogni scrupolo; ma lei pure aveva da scoprire qualcosa di sé, che è venuto alla luce quando il riconoscimento della propria colpevolezza l’ha piegata ad accogliere una punizione chissà quante volte nell’inconscio agognata ma che altrimenti avrebbe rifiutato con orrore. È indubbio che eravamo entrambi pronti, in sospeso sul crinale, in attesa di un segno sia pur vago, impazienti e smaniosi che i freni si allentassero e la macchina, carica di energia potenziale, si avviasse libera verso una ripida discesa. Adesso, al compimento di una fumata meravigliosa quale da tempo non mi era concessa, chiaro indizio di un raggiunto equilibrio, mi accingo a salire di sopra, dove mia moglie mi starà aspettando. Queste ultime ventiquattro ore sono state brevissime, vissute con un’intensità vertiginosa. (continua)

martedì 17 giugno 2008

Il quaderno - di Homo faber

LA PERGOLA
I LE CHIOCCIOLE
Il sacrificio è consumato. Alla facilità spensierata dell’ingestione delle vittime, decine di chiocciole naviganti nel sugo denso della loro cottura, non corrisponde altrettanto agevole digestione, che si preannuncia invece lunga e laboriosa. Sono apparse all’improvviso dopo la prima pioggia, ad affollare i viottoli dei campi e soddisfare la rapacità di numerosi cercatori, già che segnate nel loro destino erano prima la purga nella segatura e dopo tre giorni la cottura fra spezie e pomodoro, per essere servite in tavola, estratte dal guscio con meticolosità liturgica e minuscola forchetta a due rebbi, divorate col tocco di pane inzuppato nel sugo piccante, innaffiate con vino rosso vecchio di tre anni. Dopo di che il rituale reclamava una sosta prolungata nella poltrona di vimini sotto la pergola, con una pipa dal camino capace ed il fiasco del vinsanto a portata di mano. Non un alito di vento veniva a dissipare l’ascensione, pigra per lo scarso gradiente termico fra il fumo e l’aria afosa, delle spire aromatiche, ed inevitabile pareva accondiscendere all’appesantimento delle palpebre per l’abbiocco ed a difesa estrema dal cielo abbacinante della campagna affogata nel caldo e nella polvere, là fuori dal pergolato, intorno alla casa colonica nella quale sono ospite con mia moglie Lucrezia. Non era però consentito il dolce soccombere dalla turba dei pensieri, in disordine vaganti, violenti come sogni, rapidi nel disegnare traiettorie sempre più prossime a sfiorare il nodo centrale, che non voleva e non doveva essere manifestato. Ed allora ecco il quaderno nel quale incanalarli, i pensieri, nel tentativo forse vano di esorcizzare i più molesti almeno. Caldo e polvere da metà luglio fino all’acquazzone di tre giorni fa, che ha indotto allo scoperto le chiocciole da recondite dimore e me dal riparo della pergola. Ma dopo appena un’ora il paniere era colmo e il sole di nuovo cocente, l’afa insopportabile nell’umidità fermentata, e con la camicia incollata alla schiena per traspirazione copiosa ho allungato il passo verso casa, ho depositato il paniere in cucina, e senza far rumore sono salito al piano di sopra per raggiungere il bagno al termine del lungo corridoio, dove già pregustavo algido ristoro, con transito inevitabile davanti alla porta socchiusa della camera del mio ospite, dalla quale provenivano gemiti inconfondibili. Ho capito che il mio incedere, silenzioso in rispetto di chi, presumevo, fosse ancora assopito nel riposo pomeridiano, aveva ottenuto un esito ben diverso, ma la funesta premonizione non è valsa ad arginare l’impulso che mi esigeva affacciato e sbirciante. Un candido lenzuolo lasciava scoperta la testa, il collo taurino, le spalle brunite di lui; il suo corpo celava quello di Lucrezia, della quale vedevo un braccio, candido nel contrasto, ed il volto alterato, le labbra imploranti, gli occhi socchiusi. Stavo immobile sulla porta, incapace di staccarmi dalla scena ineffabile, quando lei li ha aperti, gli occhi, percorsi da un lampo di sorpresa nel dirigere a me lo sguardo, poi li ha richiusi, mentre il suo respiro diveniva un roco affanno da annegata e i movimenti dei corpi sotto il lenzuolo, da lievi e ritmati che erano, si facevano disordinati e violenti, sempre più accelerati. La mia comparsa da spettatore, insomma, ha scatenato un orgasmo così intenso, una così completa partecipazione all’atto amoroso, quali da attore oramai non riuscivo a provocare più. In silenzio ho ridisceso le scale. Il nostro ospite non deve nemmeno essersi accorto della mia presenza, mentre io e Lucrezia, quasi per muta intesa, abbiamo evitato ogni accenno a quanto è accaduto ed allo stesso modo abbiamo evitato ogni contatto dei nostri corpi. Che si possa dormire nello stesso letto senza nemmeno sfiorarsi è una scoperta che presto o tardi ogni coppia stabile è costretta a fare. Io ho tenuto i miei pensieri in purgo, insieme alle chiocciole, escludendoli dalla mia mente grazie ad una strana capacità che anche in altre occasioni si era manifestata, seppur mai con tanta evidenza. Ne sto adesso completando la digestione e l’assimilazione. Il caldo si fa sempre più insopportabile, perfino qui sotto la pergola, e meglio sarebbe salire in camera e cercare di dormire, nel letto dove sarà già Lucrezia. Se finora la sua presenza non ha ostacolato il mio sonno, oggi giacere al suo fianco mi appare inconcepibile, quasi oggi soltanto l’adulterio avesse acquisito il suo pieno significato. Però non so ancora quale atteggiamento assumere, non so neppure se dovrei parlarne, e avverto soprattutto l’esigenza di evitare una scenata; ma non certo, sia chiaro, a tutela di onore e dignità, termini risibili a fine secolo e qui, nella culla della civiltà, se usati a proposito di corna, bensì per il caldo che mal si concilia con gli alterchi coniugali. Né soffrirò per amore: prima del matrimonio, e subito dopo, credevo di essere innamorato di Lucrezia, forse lo ero; ma poi si sa, il legame diventa indissolubile, o tale è visto, ed il connubio riposante e pigro, sì che all’amore chi ci pensa più. Né soffrirò per orgoglio: sono fermamente convinto che l’uomo possa e debba utilizzare le sue energie in modo molto più proficuo che nell’impegno costante e gravoso dell’appagare le fregole di una moglie, e non pretendevo perciò che dei nostri congiungimenti, sempre più fiacchi ed insinceri, lei fosse pienamente soddisfatta. In definitiva ciò che più mi turba è lo stupore conseguente al crollo di un convincimento: che dei principi morali, o pregiudizi se si vuole, fossero garanti della sua fedeltà. Meglio mi sarei capacitato del tradimento cittadino se a ragione si sentisse trascurata quando il lavoro assorbe molto del mio tempo razionando e presenza e attenzione. Ma forse proprio in città è cominciata la tresca, e l’invito a venire qui a trascorrere le vacanze ne è stato la conseguenza: un pensiero questo che concorre a farmi sentire uno scomodo intruso, non senza provocare una certo inquieto prurito. Urge una scelta. Per il clima e l’inazione, tre giorni di astinenza cominciano a pesare. Posso considerare mia moglie un semplice strumento di piacere e utilizzarla malgrado tutto, ma temo che ciò venga a detrimento dei nostri rapporti futuri, quelli fuori del letto cioè, ed ostacoli poi la serenità tranquilla, l’armonia pacifica, perlomeno esteriori, della nostra convivenza, che tanto hanno contribuito ai miei successi nell’attività lavorativa. Ma è davvero tempo d’illazioni? Sarà il calore irrespirabile dell’aria, sarà il vinsanto che è calato nel fiasco come evaporando, ma questa pergola è simile a barca che affonda e sarà presto sommersa dai flutti. E allora perché tanti scrupoli? In fondo tutta la vita non è che un breve tragitto sur una barca che sta per affondare, e cercare un contatto concreto con la realtà intorno, vaghe onde spumeggianti e subito dissolte, è solo sciocca velleità. Sono io a scrivere queste cose? Meglio è che posi la penna e mi alzi. Il tabacco non brucia più nella pipa diventata troppo umida e forse anche la digestione è ormai conclusa. (continua)

giovedì 12 giugno 2008

Party time

Sabato 14 giugno 2008. Una mezzoretta dalle 23 circa, a conclusione della festa dei corsi: villa Pecori, Montale (in caso di pioggia: casa del popolo). Harold Pinter, Party time. Regia: Francesco Rotelli Interpreti: Arianna Borrini, Edoardo Maria Bianchi, Eliana Crabu, Ester Loiacono, Fabio Cherubini, Fabiola Nesi, Franco Paluzzi, Martina Betti, Silvio D'Ulivo. Esordio della compagnia Sesamo e Cartamo. Nella sezione link: blog e sito (in costruzione).

lunedì 9 giugno 2008

San Salvi / 15

MUSEO DELLA MEMORIA

Sollecitato da Homo Vulgaris e stuzzicato dall'incursione nel blog di un gruppo musicale (www.labandagastrica.it) venerdì scorso ho scritto una mail a una casella di posta elettronica dell'asl dedicata ai suggerimenti. Eccola:
Buongiorno,
a Palermo e a Venezia (ma immagino anche in altre città d'Italia) sono stati istituiti musei della memoria, musei che ricostruiscono la storia del manicomio cittadino. Un museo della memoria a San Salvi: è un'idea che è mai stata presa in considerazione o progettata? Ho letto alcuni libri sulla storia di San Salvi presi dall'ottima biblioteca Chiarugi; mi sembra di capire che l'archivio (delle cartelle cliniche ecc., non mi riferisco ai libri) potrebbe esser meglio sistematizzato o comunque che ci sarebbe molto lavoro da fare per far crescere la memoria storica dell'ex-manicomio. I "matti" di san Salvi non hanno diritto a un monumento che li ricordi? Le migliaia di persone che per più di un secolo hanno vissuto (e sofferto) in questa città dovrebbero esser ricordate con un museo.
Cordiali saluti
Silvio D'Ulivo
Talvolta risponde il direttore generale sul giornalino aziendale (nell'ultimo numero ha accolto la proposta di un cineforum aziendale). Vedremo.

venerdì 6 giugno 2008

San Salvi / 14

Sempre Francesca Arena trascrive nella sua tesi un dialogo tra dottore e malato. Il dialogo si trova in un vecchio manuale di psichiatria e dovrebbe essere essere esemplificativo di un caso tipico di amenza (confusione mentale)

Di dove siete?

Di Stia, proprio del Borgo, facevo lo spazzino.

Perché vanno (sic) portato al manicomio?

Sissignore, perché avevo male… poi picchiai un colpo nel capo e un dottore mi disse che avveo male al capo

State volentieri qua dentro?

Che vuole… non tanto… vedo tanta gente che non conosco…

E allora, che dobbiamo fare di voi?

Mi rimetto in lei, faccia lei, io avrei piacere che mi rimettessero fuori

Chi avete in casa per assistervi?

A casa ci ho una moglie, un figlio che si chiama Pietro, uno Beppe e una bambina malata

Che malattia ha la vostra bambina?

È un pezzo che è malata, volle andare in fabbrica, non mi ricordo, fra sì e no mi sento confuso

Da molto tempo vi sentite confuso?

E chi se ne rammenta?

Che luogo è questo?

Non so

Che luogo vi pare che sia?

Io non posso rispondere a queste cose perché non me ne intendo. Io posso dire… mi pare.. che vi sia delle belle vedute… ma non so considerare, non so fermarmi…

Cosa vi pare di queste persone?

Io? Messi qua e là… a me paiono… non stanno mai fermi, mi guardano su e giù, mi guardano male, pare che ce l’abbiano con me, su e giù mi hanno confuso.

Dormite bene la notte?

Poco

Perché?

Sento delle voci, sento che scaracchiano e sputano, sembra che dican di me

Conoscete Firenze?

Sì, ci sono stato, so che è una bella città e ci sto volentieri, ma qui no, il capo, mi vagella, tutta questa gente non istà mai… se lavorassi ci starei, un ospizio sì, non mi raccapezzo, sono tanti anni che manco da casa… bisogna domandarlo al municipio

mercoledì 4 giugno 2008

San Salvi / 13

Riassunto delle puntate precedenti. Un precario della Pubblica Amministrazione, condannato a vita a lavorare in un ufficio dell'ex-manicomio di Firenze, sogna di essere uno scrittore e cerca materiale relativo all'ospedale psichiatrico come spunto per il suo primo romanzo, pubblicando i propri appunti per i suoi quattro lettori.
Francesca Arena. Tesi 2001/2002. Lettere e filosofia. “Il mondo capovolto: regole, teorie e pratiche nel manicomio di Firenze: San Salvi fra Otto e Novecento”.
A Firenze, ad esempio, non esiste un vero e proprio “archivio del manicomio”: siamo in presenza piuttosto di un insieme di depositi non inventariati in modo sistematico… Nonostante le difficoltà il materiale è in massima parte consultabile e non è – come una pubblicazione della Provincia sostiene – alluvionato… Da qualche anno non vi è più un archivista. Manca, fino agli anni Quaranta, un registro in ordine alfabetico che permetta di seguire la degenza nel tempo di un singolo ricoverato. Mancano del tutto le cartelle cliniche relative agli usciti dal 1901 al 1911…
(inizio secolo). Mentre si gettavano le basi del “progresso” la presenza di migliaia di individui, in ogni manicomio, dimostrava la fallacità di un modello antico e moderno insieme. Alcolizzati, morfinomani, pellagrosi, donne poco “femmine” e uomini poco virili venivano inviati, prima di tutto dalle famiglie, nelle enormi strutture collocate a lato di ogni città. Alcuni dati sulle presenze nel manicomio. 1912 Firenze, 224849 abitanti, 489 presenti (256 uomini), 250 ammessi (128 uomini) Pistoia, 70.251 abitanti, 117 presenti (66 uomini), 53 ammessi (28 uomini) Montale, 11034 abitanti, 10 presenti (6 uomini), 7 ammessi (4 uomini) Censimenti dei pazzi ricoverati in Italia 1874 – n. 12.210 (0,5% della popolazione) 1899 – n. 36.931 (1,1% della popolazione) 1914 – n. 54.311 (1,5% della popolazione) A San Salvi nel 1900 erano presenti 1255 ricoverati, nel 1913 1470, nel 1914 gli ammessi furono 794, i dimessi 223, i morti 20. Le dimissioni dei degenti, approvate dal tribunale, erano, in massima parte, sollecitate dai familiari ed erano motivate dall’avvenuta guarigione o dalla cessata pericolosità. Solitamente i Comuni o la Questura inviavano il malato in manicomio secondo un criterio di pericolosità per sé o per gli altri. Le dimissioni invece erano richieste dalle famiglie tramite lettera privata o tramite l’intervento del Sindaco. (fine 1800) I medici primari (due a San Salvi, uno a Castel Pulci) provvedevano quotidianamente alle visite mattutine e serali, accompagnavano il Direttore nella visita generale e dovevano assistere alla distribuzione del vitto… Con l’obbligo di risiedere nella sezione di riferimento senza mai allontanarsene e di dormire vicino ai malati, gli infermieri erano responsabili di tutto quello che poteva accadere, senza del resto poter prendere alcuna iniziativa. Provvisori per un anno, passavano di ruolo solo per “buon servizio”; dal manicomio potevano uscire ogni 4 giorni per 10 ore. I coniugati potevano tornare nello stabilimento la mattina successiva, mentre i celibi per pernottare fuori dovevano ottenere di volta in volta il permesso del direttore. Le donne infermiere avevano un permesso di uscita di 3 ore (4 in inverno) ogni 3 giorni…
Come una grande macchina il manicomio funzionava grazie al massiccio impiego di forza lavoro e utilizzava come operai i malati. Come una piccola società impiegava centinaia di persone… È fin troppo evidente che tale sistema garantiva prima di tutto un netto risparmio sulla manodopera, assicurando d’altra parte alla Provincia le entrate dei prodotti in surplus venduti.. Il regolamento dedica ai malati solo una parte, fissando per prima cosa la loro appartenenza ad una classe sociale: i “pensionanti”, in grado di pagarsi completamente la retta; gli appartenenti alla classe “distinta”, che pagavano solo parte della retta e infine i malati della “classe comune”, la grande maggioranza, che non poteva pagare niente. I malati della classe comune avevano l’obbligo di portare un’uniforme. Il loro vitto ordinario consisteva di tre pasti: per colazione caffè, latte e pane; per pranzo minestra, una pietanza, pane e vino; per cena idem. I “distinti” venivano inviati in locali collocati all’interno dei quattro padiglioni dei “tranquilli”. Separati dagli altri malati, potevano indossare abiti propri e il loro vitto era più abbondante: al pranzo si aggiungeva una pietanza, l’insalata o la frutta; alla cena, l’insalata o la frutta. I pensionanti risiedevano in due strutture appositamente costruite (una per uomini, una per donne), annesse al manicomio, per le quali valeva un regolamento speciale.