lunedì 30 giugno 2008

San Salvi / 16

"La dismissione dell'ospedale di San Salvi non può né deve significare la dismissione della memoria di questo luogo di sofferenza proprio perché la memoria deve allontanare il ritorno del dolore tra queste pareti. La ricchissima biblioteca scientifica posta nella palazzina della direzione dovrà costituire il nucleo di partenza per costituire il Museo di San Salvi dove raccogliere strumenti di terapia, archivi e altro materiale relativo alle pratiche psichiatriche prima della revisione e successiva chiusura dei manicomi"
"La dismissione psichiatrica in corso evidenzia il rischio di della dispersione del materiale, ma soprattutto della memoria delle pratiche di cura psichiatrica. Si prevede la ristrutturazione di parte di un padiglione sanitario in prossimità della biblioteca per ospitare il museo, raccogliere il materiale di terapia, archivi e documentazione ancora presente nel complesso e ampliare la biblioteca. Va raccolto inoltre tutto il materiale di rilievo e progetto sviluppato sull'area"
"La costituzione di un museo di San Salvi permette di costruire un luogo per la conservazione della memoria degli strumenti, delle pratiche terapeutiche ma soprattutto della sofferenza che ha risieduto in questo luogo di vita di una società segregata."
"Importo lavori: lire 500 milioni.
Finanziamenti: comunitari.
Tempi di realizzazione: 1 anno"
tratto da "Progetto Pilota Urbano, Riabilitare San Salvi", Comune di Firenze, aprile 1996

giovedì 26 giugno 2008

Maria Corti - L'ora di tutti

Gli scrittori danno il meglio di sé quando si immedesimano in un uomo? E viceversa: le scrittrici raggiungono il proprio apice quando il protagonista è una donna? Questo eccellente libro, L'ora di tutti, della scrittrice e critica letteraria Maria Corti, sembra confermarlo. Cinque personaggi, uno per capitolo, che raccontano lo stesso episodio: l'invasione dei turchi a Otranto nel Quattrocento e la presa della città. Cinque punti di vista diversi, cinque racconti perfetti, ma sopra di tutti il capitolo nel quale parla in prima persona una donna, Idrusa.
"Il soggetto è storico: la presa da parte dei Turchi, nel tardo Quattrocento, della cittadina pugliese d'Otranto. Ma io, più che il soggetto, lo chiamerei lo sfondo, tutt'altro che decorativo ma vivo e vero nel suo tumultuare di galeoni, di scimitarre e di bombarde, se non addirittura un felice pretesto, tanto per dar motivo alla mano, e soprattutto all'estro e al cuore, di muoversi e rappresentarci una delle più belle Romanze, nel senso antico e nobile della parola, da noi apparse: una storia la quale non tocca tanto l'epica esteriore dell'avvenimento, bensì, l'altra, quella molto più nascosta ed intima di Coloro, uomini e donne che ne furono i concreti protagonisti: gli Eroi, per tornare alle definizioni enfatiche, e i Martiri. La Corti, con l'udito fino di chi è mosso da amore, ha saputo ascoltare alcune di quelle 'antiche voci' (di quelle brillanti giovinezze, di quelle vite), del resto identiche alle figure d'oggi, e in altrettanti racconti in prima persona, concatenati dal motivo conduttore della battaglia, è riuscita a comporre uno spartito musicale tra i più affascinanti, dove l'intera Terra d'Otranto 'suona' vivissima non solo nella sua realtà storica di allora, ma in quella, anche geografica ed etnica, d'oggi e di sempre. Una Terra d'Otranto che appunto per la sua concretezza diventa poeticamente la terra delle passioni più vere, e dei più genuini sentimenti dell'intera umanità nostra".(Giorgio Caproni, "La Nazione", 30 gennaio 1963)

martedì 24 giugno 2008

Il quaderno - di Homo faber / 4

(4 - continuazione e fine) IV POSTILLA DI DIVERSO AUTORE Ho trovato questo vecchio quaderno di scuola nascosto dietro una trave del soffitto della casa colonica dove sto quest’anno trascorrendo le vacanze estive. Nascosto, si fa per dire: mi ha fatto tornare in mente la famosa ninfa che si inoltrava nella selva, non per sfuggire al fauno, ma per farvisi seguire. La copertina nera e il bordo delle pagine rosso ne fanno uno di quei quaderni che alle persone della mia generazione riempiono il cuore di nostalgia. Da qui la curiosità che mi ha invogliato alla lettura. Quando ho finito, una semplice esclamazione: mah! Poi mi sono chiesto, senza usare l’eufemismo: che cavolo è questo? E quindi, con maggior contegno: diario fedele o pura letteratura? Spingeva a propendere per la seconda ipotesi la cura stilistica, incompatibile con la tempesta di emozioni che avrebbe provato un partecipante effettivo agli eventi descritti. La congettura sembrava confermata dall’intitolazione del testo e dei tre capitoli nei quali era suddiviso. Ma siccome sappiamo bene che le opere di fantasia contengono spesso dei riferimenti alla realtà, ho pensato che mi sarebbe stato forse possibile identificarne l’autore. Diciamo la verità: ho provato un senso di solidarietà con quello sconosciuto, non per le sue intemperanze, ma per i disagi che avrà provato. In questa stagione solo Angli, Sassoni, Goti, Variaghi ed altri appartenenti alle tribù del nord sanno apprezzare una campagna nella quale imperversano il caldo e la noia. Io ci sto passando, e almeno sono vegetariano e scapolo, anzi single, come si dice ora. Ma lui, con quello strano regime alimentare. E poi le corna. In definitiva le ricerche mi sono apparse un grato diversivo. Ho cominciato le indagini nel villaggio poiché adesso la casa appartiene ad una società non meglio definita ed io l’ho avuta tramite un’agenzia: da quel lato poco da fare. Fedele alle migliori tradizioni investigative ho cercato il postino, che poi è una postina. Sono così riuscito a sapere che il vecchio proprietario della casa, un vero signore, giovane, alto, robusto, veniva tutti gli anni a passarci l’estate, da solo. Un bell’uomo, ha voluto precisare la portalettere. Da lei ho pure saputo che una donna del posto aveva cura della casa in sua assenza, la preparava quando lui preannunciava il suo arrivo e si occupava delle pulizie quando era lì, soprattutto se c’erano degli ospiti. E cucinavo, ha aggiunto la casiera quando l’ho rintracciata, confermando che si trattava di un vero signore, giovane, alto e robusto, ma bello no davvero. Ho accertato dunque che il proprietario non doveva lesinare le mance e che le due donne non avevano gli stessi gusti in fatto di uomini, per quanto me ne potesse importare. Però mi sono chiesto se una delle due, e quale, mi avrebbe considerato bello, tenendomi il dubbio per me. Dalla casiera ho saputo che di visitatori ne venivano spesso e non si trattenevano per più di qualche giorno. Un anno però..., sì, un anno era stato suo ospite un signore, vero ovviamente, per un mese o più, e quello sì che era bello. E c’era la moglie, bella pure lei. Ho immaginato come sarebbe stato il cane, se ne avessero avuto uno. È opinione diffusa fra gli abitanti di quel paese, e chi potrebbe dar loro torto, che per passare un paio di mesi in una casa colonica non è necessario conoscere vita morte e misfatti dei precedenti abitatori. Di conseguenza con le mie domande stavo facendomi una fama poco lusinghiera. In ogni modo qualcuno mi ha consigliato di parlare col parroco, che la moglie dell’ospite frequentava assiduamente nel periodo che erano qui. Ci mancava un prete a complicare la faccenda, mi sono detto. Quando però l’ho visto, anziano, rinsecchito, ingobbito, emanante un acuto odore d’aglio a tre metri di distanza, non mi è sembrato tipo da tresca amorosa. Anzi, ho pensato che per frequentarlo assiduamente era necessaria una grande fede. Mi ha squadrato sospettoso e si è rassicurato dopo che gli ho menzionato i miei rapporti con un’importante università della capitale. Ho omesso di precisare che ero fra i firmatari di una certa lettera indirizzata al papa in occasione di una sua visita. Dal prete ho saputo dunque che quel tale era il direttore di un importante Istituto di Credito, che fumava la pipa, che era una persona cordiale ed educata come ce ne sono poche, di questi tempi poi (ahimè, il relativismo dilagante)! E un buongustaio. Uno insomma che se si suicidava lui, veniva fuori dal ritratto che me ne facevo, allora cosa dovrebbero fare gli altri? La moglie, che si chiamava, si chiamava..., macché, Lucrezia no di certo, era una donna bella, non nel senso mondano, quello lui non poteva dirlo. Era una persona di buon cuore, un’anima eletta con un gusto raffinato per gli addobbi floreali. E questa? mi stavo chiedendo, ma poi mi ha chiarito che tali sue doti si erano manifestate nella ricorrenza del patrono del villaggio, Santo Alessandro martire, che come tutti sanno (non gli ho detto che ero l’unica eccezione) cade il 26 d’agosto. In quell’occasione il contribuito della bella (non in senso mondano) signora all’organizzazione dei festeggiamenti era stata preziosa. Due persone insomma, teneva a precisare il sacerdote dopo le mie velate insinuazioni, la cui integrità morale non andava messa in discussione ed alle quali non era lecito attribuire turbe caratteriali, checché ne sentissi dire in giro. A dire il vero non avevo capito quali erano le doti del marito incompatibili con le turbe, delle quali niente in giro si diceva, se direttore di banca o buongustaio o fumatore di pipa. Della moglie l’amore per i fiori. A quel punto restava da informarsi sul lago, vincendo le resistenze degli indigeni. Tanto la nomea di bizzarro impiccione già me l’ero fatta. Così ho saputo che dopo il Matto l’unica vittima è stata una bambina di dodici anni, nell’estate di qualche anno fa. Un paio di giorni dopo la sua scomparsa si è cercato nel lago. Il corpicino è stato trovato sul fondo, immerso nel fango. La morte non era dovuta ad annegamento, bensì, come ha rivelato l’autopsia, a strangolamento, dopo che le era stata usata violenza. L’assassino non è mai stato scoperto. Avrei potuto completare le indagini verificando se l’anno del crimine coincidesse con la presenza nella casa colonica della coppia ospite, ma me ne sono astenuto: le mie indagini terminano qui. Adesso sono sotto la pergola, ad aggiungere questo quarto capitolo al quaderno, che poi riporrò dove l’ho trovato. Se il colpevole sta aspettando che qualcuno lo rintracci e metta fine alla sua attesa angosciosa, non sarò io a fargli questa grazia.* * Nota dell’Autore: ho trovato il quaderno, che trascrivo fedelmente senza niente togliere o aggiungere, dietro una trave del soffitto di una casa colonica immersa nella campagna toscana.

venerdì 20 giugno 2008

Il quaderno - di Homo faber / 3

(3 - continuazione)
III L’ABISSO Mi pento di essere venuto in campagna, e per non essere frainteso devo precisare: a parte le vicissitudini coniugali. Il motivo primo che mi ha spinto a farlo è stata l’illusione di sfuggire al clima torrido e umido che rende invivibile la città in questo periodo, ma il caldo che sto soffrendo qui non ha niente da invidiare all’afa cittadina. L’unico mio rifugio è questo pergolato, popolato tuttavia da fantasmi che offendono la mente e negano ristoro al corpo, senza che mi sia dato d’invenire una condotta adeguata ad affrontarli. I miei pensieri, reputati un tempo i più fedeli alleati, sono armi dalla lama ottusa; la ragione, tanto esaltata dai filosofi, serve solo a giustificare azioni abominevoli con le loro conseguenze nefaste; la cultura, deputata ad affinare il giudizio, è niente più che nostalgia di epoche tramontate. Non so come potrò riprendere il cammino, in qualsiasi direzione esso si dipani, poiché dopo quanto è successo non mi è consentita ormai un’esistenza che scorra nei canali consueti del vivere comune, né tornerò a sognare, quando la realtà ha raggiunto e superato le più ardite fantasie, né seguiterò per la strada appena imboccata, ostruita in via definitiva da ciò che ieri è accaduto. Un buon pranzo e un’ottima fumata, e poi ho lasciato la pergola per salire in camera, desideroso di ritrovare le emozioni tanto sconvolgenti del giorno prima, munito di sentimenti artificialmente preparati che me ne avrebbero consentito la fruizione. Entrando nella camera ho visto negli occhi di Lucrezia, che non dormiva e mi stava aspettando, di nuovo del terrore ma non un terrore spontaneo, come se anche lei, desiderando che si ripetesse il rito profanatorio nel quale era la vittima consenziente di un torturatore poco convinto, avesse predisposto i suoi sentimenti allo steso modo di chi assiste alla proiezione di un film dell’orrore ed è preparato al soprassalto. Di nuovo l’ho colpita, di nuovo l’ho spogliata strappandole gli abiti di dosso, e non è rimasta che la carne, debole e rassegnata, disposta a subire con stanchezza la violenza artefatta e bonaria di un carnefice che si scusa con il condannato per il tormento al quale il suo dovere gli impone di sottoporlo. Ma poi c’è stato il momento in cui le mie mani si sono strette con gesto disperato intorno al suo collo, offerto e fragile, ed ho sentito sotto le mie dita la pelle soffice a coprire una cartilagine cedevole e facile da spezzare. Per un attimo è stata autentica la mia volontà di colpire e ferire, da lei percepita tanto chiaramente che il suo terrore, palese negli occhi sbarrati, è divenuto sincero quanto il mio odio, mentre il suo corpo era percorso da un brivido violento come per una scossa elettrica, come albero percosso dal fulmine. Ci siamo trovati uniti in un orgasmo convulso e le mani hanno allentato la presa, non so grazie a quale istinto di salvamento, non senza lasciare sulla pelle le tracce della pressione. Poi siamo rimasti lì, inerti ed accasciati, due burattini ai quali, una volta calato il sipario, siano stati sciolti i fili, e di reale in noi non c’era che il sudore dei nostri corpi. Mi chiedo adesso cosa ci rimane, quale sarà la prossima tappa, e non voglio una risposta, non voglio che ci sia una tappa ulteriore, perché ne ho paura. Stamani ho vagato a lungo per la campagna, prima che sorgesse il sole, quando già avevo rinunciato alla speranza di trovare nel sonno un po’ di tregua alla mia angoscia, e sono giunto al lago, se così si può chiamare quella grossa pozza artificiale. Lago lo chiama la gente del vicino villaggio, che odia quel posto ed evita perfino di parlarne da quando un tale, non per nulla soprannominato il Matto, vi è annegato, senza che si sappia se per incidente o atto volontario. Mi sono seduto vicino al bordo e sono rimasto là per non so quanto tempo, immobile ed assorto, fino a che un sole cocente non mi ha costretto ad alzarmi per un ritorno penoso, ma durante il quale ho espulso insieme al sudore la malinconia ed ogni pensiero funereo. Dopo un lauto pranzo, cotolette di agnello a scottadito il piatto forte, che ha confermato nel nostro ospite una innegabile e squisita attenzione per la tavola e nella donna che cura la casa e sembra riparare a tutto delle ottime doti culinarie, sono tornato qui a scrivere, ma non posso scacciare dalla mia mente l’immagine ossessiva del lago. È vero che l’impressione che se ne riceve è sgradevole, soprattutto per le sponde di sterrato che lasciano figurare un fondo melmoso, ma ciò non inibisce il fascino inusitato che su di me esercita. Se chiudo gli occhi rivedo quelle acque così calme e nello stesso tempo così minacciose, ne subisco l’attrazione funesta, odo il richiamo imperioso e ineludibile del fondo che non ho neppure visto, ma che mi fingo nel pensiero, quasi il mio corpo fosse già stato una volta, in tempi remoti, imprigionato in quella massa fangosa, privo di vita cosciente. So che Lucrezia in questo momento mi sta aspettando, consapevole del pericolo che correrebbe se ripetessimo l’esperienza erotica, e per ciò ancor più eccitata, ma non salirò da lei. Questi due ultimi giorni sono stati forse gli unici della mia vita che ho vissuto davvero, ma non ho il coraggio di continuare: avendo intravisto il sentiero che il mio destino ha tracciato, al pari di un eroe greco lo seguirò. Meccanicamente, senza rendermi conto, ho posato la pipa per terra, lasciando che si spengesse. (continua)

giovedì 19 giugno 2008

Il quaderno - di Homo Faber / 2

II LA VITA NOVA La campagna è anch’oggi affocata nel sole, l’ora è la stessa, lo stesso pergolato; la pipa è un’altra perchè quella usata ieri è umida e lo sarà a lungo; il coniglio arrosto che avevamo a pranzo richiede una digestione meno laboriosa delle chiocciole e il lavoro che la mia mente deve sostenere è più lieve, per cui, se ora di nuovo sto scrivendo, ma con diverso spirito, non mi ci spinge l’esigenza di affrancarmi dal peso greve di pensieri molesti e invece il gusto di ripercorrere e meglio assaporare delle sensazioni eccitanti. Ciò che è cambiato è il rapporto con Lucrezia, al quale ho dato, con decisione unilaterale, un’impronta nuova, chiara e ben definita, pur se devo ammettere che lei non ha frapposto ostacoli, ma ha piuttosto assecondato questo corso inedito. Ricordo con precisione assoluta, rivivendolo per la seconda, terza, quarta volta, ciò che ieri ho fatto quando mi sono alzato da qui, che oggi, lo so bene, rifarò di nuovo appena la pipa sarà vuota, e che posso riferire soltanto con questa espressione: ho usato violenza a mia moglie. La combinazione di parole, imposte dall’uso nella loro reciproca fissità, acquisisce il valore di un’etichetta garante del contenuto e attribuisce alla mia azione così catalogata una concretezza psicologica che funge da agente lievitante, quale enzima nell’impasto, per la mia intima soddisfazione. Le ho usato violenza come ad una donna incontrata per caso in strada, alienando dal mio agire ogni sentimento personale nei suoi riguardi, allo stesso modo che un bruto, immagino, dà libero sfogo ai suoi istinti più bestiali quando una sconosciuta infiamma accidentalmente ed involontariamente i suoi sensi. Quante volte lo avevo sognato! Quante volte, sdraiato su di una poltrona, o sul letto prima di addormentarmi, ho fantasticato di scene simili, con donne appena conosciute e subito desiderate, prima che si dileguassero, se non coincideva l’orientazione dei nostri passi, o che un felice approccio favorisse una storia per amicizia o amore! Non avevo mai dato peso a simili fantasie, rimuovendole dalla mia coscienza appena mi alzavo o il sonno vi metteva fine; ma ieri sono riemerse con prepotenza, quando ho dovuto riconoscere che ciò che stavo facendo era il risultato logico e fatale di un’esistenza di desiderio. Sono salito in camera e Lucrezia era sdraiata sopra al letto, vestita con una gonna cortissima ed una camicetta semi trasparente. Dormiva coricata su di un fianco, le gambe distanti fra loro e le braccia stese come se stesse correndo, il volto, che non riuscivo a vedere, girato verso il cuscino. In quel momento, strana circostanza, godevo di una calma eccezionale, giacché la mia mente era fredda e lucida, ad efficiente servizio di un corpo nel quale l’eccitazione stava raggiungendo vertici inimmaginabili per la cosciente precognizione di ciò che stavo per fare. Dopo una breve attesa durante la quale, immobile ai piedi del letto, mi sono concesso un’ultima pausa pleonastica destinata a fugare ogni dubbio residuo, se ve ne fossero stati, mi sono avvicinato, l’ho afferrata per un braccio voltandola verso di me, l’ho colpita con forza sul viso, ed ho visto chiaro nei suoi occhi lo stupore del risveglio diventare al riconoscermi muto terrore. Temevo che gridasse, ed ero pronto ad impedirglielo in qualsiasi modo, ma non è stato necessario, forse perché il senso di colpa le aveva fatto presagire una qualche punizione che era disposta ad accettare. L’ho colpita di nuovo, e quando ho visto le sue labbra imporporarsi mi sono gettato su di lei strappandole gli abiti di dosso. Poi tutto si è confuso: mi sono restate immagini sfocate di atti, gesti, rumori, movimenti e invece chiare impronte delle sensazioni sconvolgenti che ho provato e che continuano a conturbarmi. Io stavo nel letto, sopra la donna che amavo ed allo stesso tempo odiavo, alla quale elargivo piacere ed infliggevo sofferenza, ed ero io la donna che subiva inerte la violenza provandone terrore e insieme godendone, e del pari ero io, come tre giorni prima, una terza persona presente nella stanza che immobile e distaccata osservava la scena brutale. Ero tutte queste persone, e nella progressiva dilatazione della mia coscienza ero il letto, e la stanza con i suoi mobili, di più, ero tutto il paesaggio fuori dalla finestra inaccessibile al mio sguardo, di più, ero il sole candente ed il cielo infocato e la terra sitibonda, di più di più, l’universo intero ero io. L’improvviso afflosciarsi di ogni vigore, raggiunto e superato il culmine della frenesia lubrica, mi ha ricondotto alla realtà, al cospetto di Lucrezia il cui volto esprimeva un appagamento profondo, una gratitudine sincera, una devozione assoluta. Devo confessare che l’aver messo a nudo la mia natura più intima, ignota a me stesso fino ad allora, mi ha lasciato in uno stato di vago sbigottimento al quale non riuscirò a reagire, almeno finché le sensazioni provate perdureranno con tanta vivezza da escludere una profonda riflessione. Ho cercato di non dare troppo peso alle mie incertezze, di rimuovere i sensi di colpa, adducendo senza sforzo gli argomenti a sostegno di un comportamento che non esiterei a definire moralmente puro e socialmente accettabile. Nella società in cui vivo la violenza non è condannata in quanto tale, ma solo se è diretta a minacciarne la stabilità, mentre in determinate circostanze è perfino auspicata, se non imposta. I poliziotti, i giudici, i carcerieri, sono sempre e soltanto mossi da sete di giustizia o soddisfano altresì nel punire i colpevoli l’anelito più o meno inconscio di spaventare, soggiogare, tormentare? Il mio desiderio è affiorato alla coscienza grazie al tradimento di Lucrezia ed alla sua accettazione del castigo, che hanno scatenato la mia brutalità, giustificandola e mettendo a tacere ogni scrupolo; ma lei pure aveva da scoprire qualcosa di sé, che è venuto alla luce quando il riconoscimento della propria colpevolezza l’ha piegata ad accogliere una punizione chissà quante volte nell’inconscio agognata ma che altrimenti avrebbe rifiutato con orrore. È indubbio che eravamo entrambi pronti, in sospeso sul crinale, in attesa di un segno sia pur vago, impazienti e smaniosi che i freni si allentassero e la macchina, carica di energia potenziale, si avviasse libera verso una ripida discesa. Adesso, al compimento di una fumata meravigliosa quale da tempo non mi era concessa, chiaro indizio di un raggiunto equilibrio, mi accingo a salire di sopra, dove mia moglie mi starà aspettando. Queste ultime ventiquattro ore sono state brevissime, vissute con un’intensità vertiginosa. (continua)

martedì 17 giugno 2008

Il quaderno - di Homo faber

LA PERGOLA
I LE CHIOCCIOLE
Il sacrificio è consumato. Alla facilità spensierata dell’ingestione delle vittime, decine di chiocciole naviganti nel sugo denso della loro cottura, non corrisponde altrettanto agevole digestione, che si preannuncia invece lunga e laboriosa. Sono apparse all’improvviso dopo la prima pioggia, ad affollare i viottoli dei campi e soddisfare la rapacità di numerosi cercatori, già che segnate nel loro destino erano prima la purga nella segatura e dopo tre giorni la cottura fra spezie e pomodoro, per essere servite in tavola, estratte dal guscio con meticolosità liturgica e minuscola forchetta a due rebbi, divorate col tocco di pane inzuppato nel sugo piccante, innaffiate con vino rosso vecchio di tre anni. Dopo di che il rituale reclamava una sosta prolungata nella poltrona di vimini sotto la pergola, con una pipa dal camino capace ed il fiasco del vinsanto a portata di mano. Non un alito di vento veniva a dissipare l’ascensione, pigra per lo scarso gradiente termico fra il fumo e l’aria afosa, delle spire aromatiche, ed inevitabile pareva accondiscendere all’appesantimento delle palpebre per l’abbiocco ed a difesa estrema dal cielo abbacinante della campagna affogata nel caldo e nella polvere, là fuori dal pergolato, intorno alla casa colonica nella quale sono ospite con mia moglie Lucrezia. Non era però consentito il dolce soccombere dalla turba dei pensieri, in disordine vaganti, violenti come sogni, rapidi nel disegnare traiettorie sempre più prossime a sfiorare il nodo centrale, che non voleva e non doveva essere manifestato. Ed allora ecco il quaderno nel quale incanalarli, i pensieri, nel tentativo forse vano di esorcizzare i più molesti almeno. Caldo e polvere da metà luglio fino all’acquazzone di tre giorni fa, che ha indotto allo scoperto le chiocciole da recondite dimore e me dal riparo della pergola. Ma dopo appena un’ora il paniere era colmo e il sole di nuovo cocente, l’afa insopportabile nell’umidità fermentata, e con la camicia incollata alla schiena per traspirazione copiosa ho allungato il passo verso casa, ho depositato il paniere in cucina, e senza far rumore sono salito al piano di sopra per raggiungere il bagno al termine del lungo corridoio, dove già pregustavo algido ristoro, con transito inevitabile davanti alla porta socchiusa della camera del mio ospite, dalla quale provenivano gemiti inconfondibili. Ho capito che il mio incedere, silenzioso in rispetto di chi, presumevo, fosse ancora assopito nel riposo pomeridiano, aveva ottenuto un esito ben diverso, ma la funesta premonizione non è valsa ad arginare l’impulso che mi esigeva affacciato e sbirciante. Un candido lenzuolo lasciava scoperta la testa, il collo taurino, le spalle brunite di lui; il suo corpo celava quello di Lucrezia, della quale vedevo un braccio, candido nel contrasto, ed il volto alterato, le labbra imploranti, gli occhi socchiusi. Stavo immobile sulla porta, incapace di staccarmi dalla scena ineffabile, quando lei li ha aperti, gli occhi, percorsi da un lampo di sorpresa nel dirigere a me lo sguardo, poi li ha richiusi, mentre il suo respiro diveniva un roco affanno da annegata e i movimenti dei corpi sotto il lenzuolo, da lievi e ritmati che erano, si facevano disordinati e violenti, sempre più accelerati. La mia comparsa da spettatore, insomma, ha scatenato un orgasmo così intenso, una così completa partecipazione all’atto amoroso, quali da attore oramai non riuscivo a provocare più. In silenzio ho ridisceso le scale. Il nostro ospite non deve nemmeno essersi accorto della mia presenza, mentre io e Lucrezia, quasi per muta intesa, abbiamo evitato ogni accenno a quanto è accaduto ed allo stesso modo abbiamo evitato ogni contatto dei nostri corpi. Che si possa dormire nello stesso letto senza nemmeno sfiorarsi è una scoperta che presto o tardi ogni coppia stabile è costretta a fare. Io ho tenuto i miei pensieri in purgo, insieme alle chiocciole, escludendoli dalla mia mente grazie ad una strana capacità che anche in altre occasioni si era manifestata, seppur mai con tanta evidenza. Ne sto adesso completando la digestione e l’assimilazione. Il caldo si fa sempre più insopportabile, perfino qui sotto la pergola, e meglio sarebbe salire in camera e cercare di dormire, nel letto dove sarà già Lucrezia. Se finora la sua presenza non ha ostacolato il mio sonno, oggi giacere al suo fianco mi appare inconcepibile, quasi oggi soltanto l’adulterio avesse acquisito il suo pieno significato. Però non so ancora quale atteggiamento assumere, non so neppure se dovrei parlarne, e avverto soprattutto l’esigenza di evitare una scenata; ma non certo, sia chiaro, a tutela di onore e dignità, termini risibili a fine secolo e qui, nella culla della civiltà, se usati a proposito di corna, bensì per il caldo che mal si concilia con gli alterchi coniugali. Né soffrirò per amore: prima del matrimonio, e subito dopo, credevo di essere innamorato di Lucrezia, forse lo ero; ma poi si sa, il legame diventa indissolubile, o tale è visto, ed il connubio riposante e pigro, sì che all’amore chi ci pensa più. Né soffrirò per orgoglio: sono fermamente convinto che l’uomo possa e debba utilizzare le sue energie in modo molto più proficuo che nell’impegno costante e gravoso dell’appagare le fregole di una moglie, e non pretendevo perciò che dei nostri congiungimenti, sempre più fiacchi ed insinceri, lei fosse pienamente soddisfatta. In definitiva ciò che più mi turba è lo stupore conseguente al crollo di un convincimento: che dei principi morali, o pregiudizi se si vuole, fossero garanti della sua fedeltà. Meglio mi sarei capacitato del tradimento cittadino se a ragione si sentisse trascurata quando il lavoro assorbe molto del mio tempo razionando e presenza e attenzione. Ma forse proprio in città è cominciata la tresca, e l’invito a venire qui a trascorrere le vacanze ne è stato la conseguenza: un pensiero questo che concorre a farmi sentire uno scomodo intruso, non senza provocare una certo inquieto prurito. Urge una scelta. Per il clima e l’inazione, tre giorni di astinenza cominciano a pesare. Posso considerare mia moglie un semplice strumento di piacere e utilizzarla malgrado tutto, ma temo che ciò venga a detrimento dei nostri rapporti futuri, quelli fuori del letto cioè, ed ostacoli poi la serenità tranquilla, l’armonia pacifica, perlomeno esteriori, della nostra convivenza, che tanto hanno contribuito ai miei successi nell’attività lavorativa. Ma è davvero tempo d’illazioni? Sarà il calore irrespirabile dell’aria, sarà il vinsanto che è calato nel fiasco come evaporando, ma questa pergola è simile a barca che affonda e sarà presto sommersa dai flutti. E allora perché tanti scrupoli? In fondo tutta la vita non è che un breve tragitto sur una barca che sta per affondare, e cercare un contatto concreto con la realtà intorno, vaghe onde spumeggianti e subito dissolte, è solo sciocca velleità. Sono io a scrivere queste cose? Meglio è che posi la penna e mi alzi. Il tabacco non brucia più nella pipa diventata troppo umida e forse anche la digestione è ormai conclusa. (continua)

giovedì 12 giugno 2008

Party time

Sabato 14 giugno 2008. Una mezzoretta dalle 23 circa, a conclusione della festa dei corsi: villa Pecori, Montale (in caso di pioggia: casa del popolo). Harold Pinter, Party time. Regia: Francesco Rotelli Interpreti: Arianna Borrini, Edoardo Maria Bianchi, Eliana Crabu, Ester Loiacono, Fabio Cherubini, Fabiola Nesi, Franco Paluzzi, Martina Betti, Silvio D'Ulivo. Esordio della compagnia Sesamo e Cartamo. Nella sezione link: blog e sito (in costruzione).

lunedì 9 giugno 2008

San Salvi / 15

MUSEO DELLA MEMORIA

Sollecitato da Homo Vulgaris e stuzzicato dall'incursione nel blog di un gruppo musicale (www.labandagastrica.it) venerdì scorso ho scritto una mail a una casella di posta elettronica dell'asl dedicata ai suggerimenti. Eccola:
Buongiorno,
a Palermo e a Venezia (ma immagino anche in altre città d'Italia) sono stati istituiti musei della memoria, musei che ricostruiscono la storia del manicomio cittadino. Un museo della memoria a San Salvi: è un'idea che è mai stata presa in considerazione o progettata? Ho letto alcuni libri sulla storia di San Salvi presi dall'ottima biblioteca Chiarugi; mi sembra di capire che l'archivio (delle cartelle cliniche ecc., non mi riferisco ai libri) potrebbe esser meglio sistematizzato o comunque che ci sarebbe molto lavoro da fare per far crescere la memoria storica dell'ex-manicomio. I "matti" di san Salvi non hanno diritto a un monumento che li ricordi? Le migliaia di persone che per più di un secolo hanno vissuto (e sofferto) in questa città dovrebbero esser ricordate con un museo.
Cordiali saluti
Silvio D'Ulivo
Talvolta risponde il direttore generale sul giornalino aziendale (nell'ultimo numero ha accolto la proposta di un cineforum aziendale). Vedremo.

venerdì 6 giugno 2008

San Salvi / 14

Sempre Francesca Arena trascrive nella sua tesi un dialogo tra dottore e malato. Il dialogo si trova in un vecchio manuale di psichiatria e dovrebbe essere essere esemplificativo di un caso tipico di amenza (confusione mentale)

Di dove siete?

Di Stia, proprio del Borgo, facevo lo spazzino.

Perché vanno (sic) portato al manicomio?

Sissignore, perché avevo male… poi picchiai un colpo nel capo e un dottore mi disse che avveo male al capo

State volentieri qua dentro?

Che vuole… non tanto… vedo tanta gente che non conosco…

E allora, che dobbiamo fare di voi?

Mi rimetto in lei, faccia lei, io avrei piacere che mi rimettessero fuori

Chi avete in casa per assistervi?

A casa ci ho una moglie, un figlio che si chiama Pietro, uno Beppe e una bambina malata

Che malattia ha la vostra bambina?

È un pezzo che è malata, volle andare in fabbrica, non mi ricordo, fra sì e no mi sento confuso

Da molto tempo vi sentite confuso?

E chi se ne rammenta?

Che luogo è questo?

Non so

Che luogo vi pare che sia?

Io non posso rispondere a queste cose perché non me ne intendo. Io posso dire… mi pare.. che vi sia delle belle vedute… ma non so considerare, non so fermarmi…

Cosa vi pare di queste persone?

Io? Messi qua e là… a me paiono… non stanno mai fermi, mi guardano su e giù, mi guardano male, pare che ce l’abbiano con me, su e giù mi hanno confuso.

Dormite bene la notte?

Poco

Perché?

Sento delle voci, sento che scaracchiano e sputano, sembra che dican di me

Conoscete Firenze?

Sì, ci sono stato, so che è una bella città e ci sto volentieri, ma qui no, il capo, mi vagella, tutta questa gente non istà mai… se lavorassi ci starei, un ospizio sì, non mi raccapezzo, sono tanti anni che manco da casa… bisogna domandarlo al municipio

mercoledì 4 giugno 2008

San Salvi / 13

Riassunto delle puntate precedenti. Un precario della Pubblica Amministrazione, condannato a vita a lavorare in un ufficio dell'ex-manicomio di Firenze, sogna di essere uno scrittore e cerca materiale relativo all'ospedale psichiatrico come spunto per il suo primo romanzo, pubblicando i propri appunti per i suoi quattro lettori.
Francesca Arena. Tesi 2001/2002. Lettere e filosofia. “Il mondo capovolto: regole, teorie e pratiche nel manicomio di Firenze: San Salvi fra Otto e Novecento”.
A Firenze, ad esempio, non esiste un vero e proprio “archivio del manicomio”: siamo in presenza piuttosto di un insieme di depositi non inventariati in modo sistematico… Nonostante le difficoltà il materiale è in massima parte consultabile e non è – come una pubblicazione della Provincia sostiene – alluvionato… Da qualche anno non vi è più un archivista. Manca, fino agli anni Quaranta, un registro in ordine alfabetico che permetta di seguire la degenza nel tempo di un singolo ricoverato. Mancano del tutto le cartelle cliniche relative agli usciti dal 1901 al 1911…
(inizio secolo). Mentre si gettavano le basi del “progresso” la presenza di migliaia di individui, in ogni manicomio, dimostrava la fallacità di un modello antico e moderno insieme. Alcolizzati, morfinomani, pellagrosi, donne poco “femmine” e uomini poco virili venivano inviati, prima di tutto dalle famiglie, nelle enormi strutture collocate a lato di ogni città. Alcuni dati sulle presenze nel manicomio. 1912 Firenze, 224849 abitanti, 489 presenti (256 uomini), 250 ammessi (128 uomini) Pistoia, 70.251 abitanti, 117 presenti (66 uomini), 53 ammessi (28 uomini) Montale, 11034 abitanti, 10 presenti (6 uomini), 7 ammessi (4 uomini) Censimenti dei pazzi ricoverati in Italia 1874 – n. 12.210 (0,5% della popolazione) 1899 – n. 36.931 (1,1% della popolazione) 1914 – n. 54.311 (1,5% della popolazione) A San Salvi nel 1900 erano presenti 1255 ricoverati, nel 1913 1470, nel 1914 gli ammessi furono 794, i dimessi 223, i morti 20. Le dimissioni dei degenti, approvate dal tribunale, erano, in massima parte, sollecitate dai familiari ed erano motivate dall’avvenuta guarigione o dalla cessata pericolosità. Solitamente i Comuni o la Questura inviavano il malato in manicomio secondo un criterio di pericolosità per sé o per gli altri. Le dimissioni invece erano richieste dalle famiglie tramite lettera privata o tramite l’intervento del Sindaco. (fine 1800) I medici primari (due a San Salvi, uno a Castel Pulci) provvedevano quotidianamente alle visite mattutine e serali, accompagnavano il Direttore nella visita generale e dovevano assistere alla distribuzione del vitto… Con l’obbligo di risiedere nella sezione di riferimento senza mai allontanarsene e di dormire vicino ai malati, gli infermieri erano responsabili di tutto quello che poteva accadere, senza del resto poter prendere alcuna iniziativa. Provvisori per un anno, passavano di ruolo solo per “buon servizio”; dal manicomio potevano uscire ogni 4 giorni per 10 ore. I coniugati potevano tornare nello stabilimento la mattina successiva, mentre i celibi per pernottare fuori dovevano ottenere di volta in volta il permesso del direttore. Le donne infermiere avevano un permesso di uscita di 3 ore (4 in inverno) ogni 3 giorni…
Come una grande macchina il manicomio funzionava grazie al massiccio impiego di forza lavoro e utilizzava come operai i malati. Come una piccola società impiegava centinaia di persone… È fin troppo evidente che tale sistema garantiva prima di tutto un netto risparmio sulla manodopera, assicurando d’altra parte alla Provincia le entrate dei prodotti in surplus venduti.. Il regolamento dedica ai malati solo una parte, fissando per prima cosa la loro appartenenza ad una classe sociale: i “pensionanti”, in grado di pagarsi completamente la retta; gli appartenenti alla classe “distinta”, che pagavano solo parte della retta e infine i malati della “classe comune”, la grande maggioranza, che non poteva pagare niente. I malati della classe comune avevano l’obbligo di portare un’uniforme. Il loro vitto ordinario consisteva di tre pasti: per colazione caffè, latte e pane; per pranzo minestra, una pietanza, pane e vino; per cena idem. I “distinti” venivano inviati in locali collocati all’interno dei quattro padiglioni dei “tranquilli”. Separati dagli altri malati, potevano indossare abiti propri e il loro vitto era più abbondante: al pranzo si aggiungeva una pietanza, l’insalata o la frutta; alla cena, l’insalata o la frutta. I pensionanti risiedevano in due strutture appositamente costruite (una per uomini, una per donne), annesse al manicomio, per le quali valeva un regolamento speciale.

domenica 1 giugno 2008

San Salvi / 12

Sabato 10 maggio il Corriere della sera, nelle cronache fiorentine, ha pubblicato due paginate su San Salvi. Ho inviato una mail all’articolista. Non mi ha risposto, poi però ho trovato la mia lettera, tagliata (è normale) e modificata (un po’ troppo), con risposta di Wanda Lattes. Eccola qui sotto.
Non avevo scritto perché mi pubblicassero, ma perché speravo che approfondissero la visita. In particolare ribadisco lo stesso punto: non c’è un museo della memoria, non c’è un monumento, non c’è un servizio informativo, non c’è un archivio organizzato. Mi sembra che quasi nessuno pensi che questo sia importante (nell’indagine del Corriere se ne parlava solo in fondo ad uno degli articoli), compreso chi lavora a San Salvi. Perciò mi sento un po’ scemo.
Quanto al libro suggerito dalla giornalista: l’ho trovato sia in biblioteca di San Salvi (è sotto chiave proprio perché prezioso, ma consultabile) sia alla libreria Chiari. L’ho comprato, molte pagine sono attaccate tra loro quindi devo trovare il tempo per staccarle e leggerlo con calma. Sembra interessante.
Questo è quello che avevo scritto all’articolista Alessio Gaggioli. Buongiorno, sono un impiegato, lavoro all'asl a San Salvi. Ho appena letto gli articoli sull'ex manicomio. Sono contento che siate venuti a trovarci, spero che torniate presto. Ci sono molte cose da dire sulla città dentro la città. Volevo parlarle però di una: la memoria. Nell'articolo di Mauro Bonciani vi si accenna, si parla dell'assenza di un museo della memoria. Avete ragione: la memoria è affidata a se stessa. Non sono mai stato ad Auschwitz, ma immagino che vi sia un centro di documentazione, una catalogazione del materiale, visite guidate, un museo. Il piccolo lager che è stato San Salvi deve essere ricordato e bisogna far presto: più il tempo passa e più si perde la memoria. I matti di San Salvi hanno diritto ad essere ricordati. Si fanno monumenti dappertutto: loro non hanno diritto a un monumento? I loro nomi dovrebbero esser scolpiti sulla pietra, tutti. La compagnia teatrale Chille de la balanza organizzava interessanti percorsi guidati nel manicomio, ma di matti non si parlava quasi per nulla. La bibliotecaria Stefania Pini è molto brava, ma il materiale di cui dispone è davvero poco. Approfittando della vicinanza del mio ufficio alla biblioteca sono andato spesso a trovarla e a recuperare materiale. Ho raccontato di questa mini-ricerca ai miei quattro lettori sul mio blog ( http://silviodulivo.blogspot.com/search/label/San%20Salvi ). Mi manca solo da leggere una tesi, poi credo di aver già esaurito il materiale. Possibile? Non si possono consultare le cartelle cliniche, è chiaro, ma è possibile che non ci sia nessun servizio informativo, nessuna banca dati? Molte delle foto sono in possesso dei fratelli Alinari, ma credo che coprano solo periodi limitati della ultracentenaria storia di San Salvi. La asl ha organizzato un corso di scrittura creativa per i dipendenti, condotto da Enzo Fileno Carabba, al quale ho preso parte. E' stata fatta una raccolta di racconti, molti riguardavano San Salvi. Non sono stati stampati. Forse erano di mediocre qualità? Può darsi. O forse non interessava? Insomma, quello che voglio dire, se ha avuto la pazienza di leggere tutta questa tirata: la memoria si sta perdendo e nessuno ha intenzione di muoversi per tenerla viva.
Spero di leggere ancora qualcosa di San salvi sul Corriere. Cordiali saluti, Silvio D'Ulivo