sabato 25 ottobre 2008

San Salvi / 22

(Da La Repubblica di venerdì 24 ottobre, intervista al fotografo Gianni Berengo Gardin)
... come nel caso di un fotolibero famoso, Morire di classe, uscito nel '68 per Einaudi, del quale la mostra offre una scelta. Un libro sui manicomi. Nell'era della rivoluzione antipsichiatrica di Basaglia, che fece scoprire anche a una sinistra fin lì distratta la tragedia senza voce del disagio mentale: "Fu un'idea di Carla Cerati: voleva fare delle foto dei manicomi ma non se la sentì di andare da sola, mi chiese di accompagnarla, andai a condizione di poter lavorare anche io. Non volevamo fotografare la malattia ma la condizione dei malati di mente, l'abbandono di cui erano vittime, la negazione della loro identità: anche prima della legge 180,la vittoria di Basaglia, che nel '78 chiuse i manicomi, camicie di forza e letti di contezione erano vietati ma tutti li usavano. E nei manicomi c'era un sacco di gente fatta sparire dai servizi, dai familiari per un'eredità, o di cui oggi si direbbe solo che è esaurita. Tranne Gorizia, dove grazie a Basaglia il manicomio era già mezzo aperto, fu l'assemblea dei malati a darci il permesso, nel resto del paese vedemmo cose spaventose. San Salvi era un lager, il peggiore dell'alta Italia, mentre a Lucca Tobino disse solo "Non si può". La direzione di San Salvi ci proibì di entrare, ci riuscimmo di domenica: i malati ci fecero passare per parenti, con la complicità degli infermieri. La violenza che vedemmo ci scioccò a tal punto che una volta usciti corremmo alla stazione e salimmo su un treno senza saperne la meta. A volte il fotografo è più forte del soggetto, quella fu una di quelle in cui, al contrario, il soggetto è più forte di chi scatta.   

lunedì 20 ottobre 2008

San Salvi / 21

“San salvi in festa” dice la locandina in bianco e nero, e un sabato pomeriggio andiamo a curiosare, chi per la prima volta “tra le mura dello storico ex ospedale psichiatrico”, chi pronto a fotografare con grandi obiettivi e zoom, chi, come me, qui è di casa e vuol vedere un’altra città, in orari che non siano di ufficio.

Le foglie arancioni sopravvivono, alcune sugli alberi, molte in terra, e ci accolgono con  palloncini colorati e poca gente che chiacchiera sorridente.

All’ingresso della residenza sanitaria, su un tavolino, rimangono ancora i librettini di poesie della signora Angela. Oggi è aperto il centro La Tinaia e nelle stanze del laboratorio artistico un uomo alto fuma, ci guarda, sorride: è lui l’autore di alcuni quadri. Un altro sta piegato sul foglio e continua indifferente il suo lavoro. Le esposizioni di arte brut di questo centro girano dal 1975 in Italia e all’estero. Qualcuno chiede se si possono comprare quadri o sculture. Sì, ma solo se non girano troppi soldi. Alcuni artisti (del servizio di salute mentale del quartiere e della città) valgono migliaia di euro e diventa complicato acquistare.

Saliamo le scale seguendo una mostra fotografica. Su al primo piano, dove troviamo dolci, pizzette e bibite, i corridoi, lunghissimi, sono seminudi, i cartelli colorati sulle porte indicano il nome dell’ospite del miniappartamento. Sbirciamo dentro e anche le stanze sembrano spoglie, intravediamo le coperte a righe bianche e celesti da ospedale.

Scendiamo di nuovo giù. Alcune ragazze giovani passano il sabato pomeriggio tra i pazienti. Un bell’infermiere, in camice bianco e zoccoli celesti, fuma in giardino. Un malato s’arrabbia: “niente foto, niente foto! Non ho gli occhiali, vengo male”, mentre i più ci intimano: “una foto sola” (ma noi non la pubblichiamo, non possiamo chiedere se vogliono apparire in un blog). La poetessa si mette in posa e fa un gesto stile ballerina, con l’indice all’insù e la gamba piegata. Un'altra ospite è mezza sdraiata su una poltrona, tutta seria, non fa che grattarsi. “Bella festa, eh?” fa uno “che posto meraviglioso, è un bello stare, qui, eh? ma poi, che festa!” C’è il cinema al piano di sotto, il proiezionista annuncia i cortometraggi e i malati guardano e tacciono sulla loro sedia: una coccola una bambolina, uno è completamente piegato in avanti e non si sa se può vedere. La musica di sottofondo del cartone animato ci mette tristezza, e pensiamo a chi ha passato tutta la vita qui e non ha altre vite da giocarsi. Suor Cecilia, dentro da decenni, ancora sorride. Un uomo alto abbraccia un’infermiera. Due musicisti, in un grande stanzone vuoto, non si arrendono alla mancanza di pubblico e suonano canzoni moderne e ritmate. Piano piano la gente arriva e comincia a ballare.

Usciamo. Un signore fuori continua a girare in bici. Durante la settimana non si vede mai, ma il sabato, evidentemente, si scatena: decine di giri sui viali alberati. Continuiamo la nostra esplorazione lungo tutto l’anello dei viali di San Salvi e scattiamo qualche immagine prima che la città dentro la città si trasformi per sempre. Comincia a far buio, in lontananza si sentono rumoreggiare i tifosi della Viola. In quest’altro mondo, nell’ospedale, la festa continua.

domenica 12 ottobre 2008

Ammaniti - Ti prendo e ti porto via

Storie che procedono parellele e poi s'intrecciano, divertimento e dramma, personaggi grotteschi eppure veri, allo stesso tempo simpatici e orripilanti.
Ammaniti anticipa Come Dio Comanda, nella struttura e nello stile, e forse dà il meglio di sé in Ti prendo e ti porto via
 
 
Il 9 dicembre, alle sei e venti di mattina, mentre una bufera d'acqua e vento infieriva sulla campagna, un Uno tubo GTI nera imboccò lo svincolo che portava dall'Aurelia a Ischiano Scalo e proseguì su una strada a due corsie che tagliava i campi di fango. Superò la Polisportiva e il capannone del Consorzio agrario ed entrò in paese.
Il breve Corso Italia era ricoperto di terra trascinata dall'acqua. Il cartellone pubblicitario del Centro estetico Ivana Zampetti era stato strappato dal vento e buttato in mezzo alla strada.
In giro non c'era un'anima, tranne un cagnaccio sciancato che aveva più razze nel sangue che denti in bocca e rovistava tra l'immondizia di un cassonetto rovesciato.
La Uno gli passò accanto, sfilò davanti alle serrande, abbassate della macelleria Marconi, della tabaccheria-profumeria e della Cassa dell'Agricoltura e proseguì fino a piazza XXV aprile, il nucleo dell'abitato.
Cartacce, sacchetti di plastica, giornali e pioggia si rincorrevano sul piazzale della stazione. Le foglie ingiallite della vecchia palma, al centro del giardinetto, erano tutte piegate da un lato. La porta della piccola stazione, un edificio quadrato e grigio, era chiusa ma l'insegna rossa dello Station Bar era accesa, segno che era già aperto.
Si fermò davanti al monumento ai caduti di Ischiano Scalo e rimase lì col motore acceso. Il tubo di scappamento sputava fuori un fumo denso e nero. I vetri fumé non lasciavano vedere all'interno.
Poi, finalmente, lo sportello del guidatore si spalancò con un gemito ferroso.
Prima uscì fuori Volare nella versione flamenca dei Gipsy King e, immediatamente dopo, apparve un uomo grande e grosso con una lunga chioma bionda, occhiali da mosca e giacca di pelle marrone con un'aquila apache di perline ricamata sulla schiena.
Il suo nome era Graziano Biglia.
Il tipo stirò le braccia. Sbadigliò. Si sgranchì le gambe. Tirò fuori un pacchetto di Camel e se ne accese una.
Era di nuovo a casa.
 
 
A Ischiano Scalo il mare c'è ma non si vede. E' un paesino di quattro case accanto a una laguna piena di zanzare. Il turismo lo evita perché d'estate s'infuoca come una graticola e d'inverno si gela. Questo è lo scenario nel quale si svolgono due storie d'amore tormentate. Ammaniti crea e dissolve coincidenze, è pronto a catturare gli aspetti più grotteschi e più sentimentali, più comici e inquietanti della realtà.