venerdì 29 febbraio 2008

Il monolocale (racconto di gruppo)

Una donna scrive l'incipit, gli altri lettori del blog sono invitati a proseguire la storia. Ne viene fuori ...
Riassunto Firenze, 2008. Un serial killer uccide dal primo maggio al 30 ottobre 2008 venti ragazze americane, studentesse universitarie. Le donne sono tutte strangolate, non ci sono segni di violenza sessuale sui loro corpi, nessun segno che faccia pensare a un lotta tra killer e vittima, nessuna traccia dell’assassino. Molti di questi omicidi avvengono a due passi dalla Questura, nei pressi di via san Gallo, perciò il Mostro 2, così com’è definito dai giornali nazionali e internazionali (per distinguerlo dal Mostro di Firenze che uccise otto coppiette negli anni Settanta e Ottanta) viene chiamato dai fiorentini “Lallo, il mostro di San Gallo”. La vita della città è sconvolta: i turisti non vengono più e molte attività economiche entrano in crisi, la popolazione è terorizzata, ma vi sono anche alcuni inaspettati cambiamenti positivi. Sul letto della ventesima vittima il killer lascia un dattiloscritto, un romanzo, o presunto tale, dal titolo Il Monolocale. La polizia scientifica indaga sul materiale cartaceo e la Procura incarica il professor Giovanni Dal Moro di studiare, dall’analisi del testo, gli aspetti psicologici dell’omicida. Il professore è titolare della cattedra di Criminologia nella facoltà di Psicologia dell’università locale con lui collabora un tirocinante, Lapo Cecchi, aspirante psicologo dai trascorsi accademici mediocri, che nel frattempo lavora al banco del pesce dell’Ipercoop di Lastra a Signa. Mentre il professore, come è stato fin dall’inizio della storia, passa il tempo a farsi intervistare in tv, Lapo sgobba al suo posto e suggerisce interpretazioni psicologiche del killer al suo prof, il quale poi le ricicla sui media. Anche l’analisi del testo "Il monolocale” tocca a Lapo. Il testo però appare spesso incomprensibile, talvolta il killer/autore si contraddice, sembra quasi non capire quello che ha scritto lui stesso poche righe sopra, cambia continuamente registro stilistico. Parte della realtà è trascritta nel romanzo (la serie di omicidi delle americane, alcuni personaggi, ecc.) ma alcune cose sembrano essere inventate. Il romanzo e la realtà sembrano proseguire parallelamente incrociandosi talvolta e divergendo in altre occasioni. Nel romanzo potrebbe trovarsi la chiave per scoprire l’omicida. Forse il killer ha lasciato delle tracce per i propri inseguitori, forse li vuole condurre a sé, forse li vuole sviare. Mentre legge per l’ennesima volta il romanzo Lapo scopre dalla televisione che è stato commesso il ventunesimo omicidio. Insieme al cadavere della vittima viene trovato di nuovo il romanzo “Il monolocale”. Il dattiloscritto ha lo stesso incipit e molti dei personaggi sono gli stessi. Ma il racconto prende strade diverse…
IL MONOLOCALE Abitavo con un’amica in un monolocale un po’ fuori dal centro, al secondo piano di un palazzo grigio senza ascensore con le scale spalmate di odore di cavolo al ragù e aspettavo che uscissero le graduatorie dell’università per l’assegnazione dei posti letto alla casa dello studente. Se aprivo la finestra e allungavo una mano, mi sembrava quasi di toccare il semaforo sospeso sul traffico e nei giorni di pioggia, mi divertivo a guardare le striature rosse verdi e gialle che si rincorrevano sull’asfalto lucido e bagnato. Avevo conosciuto la mia amica rispondendo ad un annuncio appeso sulla bacheca della mensa “Cerco ragazza per dividere affitto e spese di monolocale carino, telefonare ore pasti”. Aveva risposto una ragazza con la voce un po’ stridula e avevamo fissato un appuntamento sulle scale del Duomo per il giorno dopo alle tre.
Il giorno dopo alle tre io ero sulle scale del Duomo a scrutare tutti i volti delle persone sedute o in piedi o sdraiate, in fila sotto il sole per entrare in chiesa, a mangiare gelati di mezzo chilo e otto gusti, a bivaccare in attesa della prossima chiesa, del prossimo museo, della prossima tappa, della prossimo grand-tour d’Europa in due settimane mille euro tutto compreso. Io c’ero ma lei non c’era. Alle tre e dieci guardavo ancora tutti i volti sulle scale di piazza del Duomo, tutti con gli occhi persi nel vuoto e sorridenti solo appena scattava la foto, tutti dai volti sconosciuti e forestieri. Nessuno che scrutasse attorno a sé per cercare sconosciuti. Alle tre e un quarto avevo provato a girellare qua e là tenendo d’occhio le scale e il telefonino, e cominciando a dubitare dell’opportunità della scelta delle scale del Duomo come luogo di ritrovo. Alle tre e venti avevo cominciato ad alterarmi. Alle tre e venticinque avevo cominciato ad arrabbiarmi. Alle tre e ventisette a imprecare a bassa voce, ma non tanto bassa, perché qualcuno si era girato ad osservarmi stupito. Alle tre e trenta avevo fatto il giro del battistero per cercare di sbollire la rabbia.
Mi chiedevo perchè non le avessi proposto un segno di riconoscimento qualsiasi, un giornale o il colore di una giacca, le mie scarpe da ginnastica gialle e rosse, un fiore in mano, insomma qualcosa che non mi facesse sentire una cretina schiacciata dalla folla.Intanto una ragazza in bicicletta cercava di aprirsi un passaggio scampanellando e smanaccando, passò vicino a me e io sentii che quella era la persona che avrei dovuto incontrare. Sgomitai e mi infilai in mezzo a un gruppetto di donne giapponesi con l'ombrellino, passai oltre e arrivai dietro a lei, ferma ad aspettare che qualcuno si spostasse. Appoggiai una mano sul suo braccio e lei si voltò.
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Prospera è la cavalla che ho comprato molti anni fa per il mio calessino per turisti, si chiama Prospera per le sue forme prosperose; bassa e cicciottella, da giovane sognava di fare la cavalla da corsa, di cimentarsi coi purosangue dai più illustri natali.. lei era nata per le corse! (Pensava). In realtà non credo nemmeno che fosse nata dall’accoppiamento di due cavalli, forse un cavallo e una bufala, fatto sta che aveva dovuto presto rinunciare ai suoi sogni: addio Arc de Triomphe, addio sogni di gloria, l’unica platea era quella dei turisti di Piazza del Duomo. Per la verità gli affari non vanno più bene come una volta e i turisti si avvicinano solo per farsi fotografare accanto alla Prospera, io li ripago di egual scortesia facendo solo finta di scattare, o inquadrando altro, o solo la cavalla… li accontento solo quando mi capita qualche faccia particolare, di quelle che faresti fatica a distinguere dalla cavalla. E’ in questo modo che io e Prospera passiamo le nostre giornate, stazionando la nostra inutilità in quel fazzoletto assolato fra il Duomo e il Battistero. Mai uomini e cavalli potrebbero trovarsi in una situazione altrettanto mortificante perchè tutto ciò che è inutile è mortificante. “Certo che ce n’è di gente brutta a questo mondo!”, pensava quel pomeriggio Prospera osservando i turisti. Naturalmente il suo riferimento estetico era rappresentato dalle linee di Ribaud, il suo idolo. Ma anche osservando quella massa informe e flaccida di culi, cosce e grasso debordante dal punto di vista degli Umani, il giudizio non cambiava. “Guarda quel bischero”, sembrava volesse dirmi richiamando la mia attenzione, col solito roteare della testa, su un uomo che se ne stava ritto, immobile, sulla scalinata del Duomo. “Ha perso il branco e se ne sta lì, immobile ad aspettare che ripassi a prenderlo, che bischero!” A me non sembrava un turista, e nemmeno che avesse una faccia da bischero più clamorosa di tante altre, però il suo comportamento attirò, in breve tempo, l’attenzione di tutti i vetturini e i cavalli. Per quello che c’era da fare…!Diventava sempre più nervoso e cominciò a muoversi, dpprima a piccoli passi a destra e a sinistra, poi su e giù per la scalinata… poi fece quattro volte il giro del Battistero, sempre lanciando lo sguardo oltre quell’orda di culi, cosce e grasso debordante, e fu allora che riuscii ad osservarlo da vicino: il rosso e il verde su quella faccia, effettivamente da bischero, lasciavano pronosticare un’imminente attacco di bile e intanto saliva il tono delle sue imprecazioni. Lo vedemmo uscire dalla nostra visuale proprio mentre guardò per l’ennesima volta il telefono: “Si, aspetta che lo chiami Varenne!”, commentò Prospera.“Sorry, do it run?”…. ”Yes, si vous plais”.
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Tutto questo andava raccontando il vetturino mentre ci scorrazzava in giro per il centro di Firenze. Matilde era riuscita a scroccare un'escursione a cavallo da uno sconosciuto cocchiere e così noi avevamo abbandonato, legata a un palo, la bicicletta della mia nuova amica e ci eravamo catapultati sulla carrozza. Solo che ci illudevamo di fare amicizia guardando dall'alto i turisti grondanti di sudore, senza aver previsto di esserci imbattute in un vetturino chiacchierone che pensava di ricavare qualcosa di buono per il passaggio concesso a due belle e giovani ragazze. Alla fine però Matilde era riuscito a zittire l'anziano uomo seppellendomi sotto una valanga di parole su chi era e che cosa faceva, tanto che il poveruomo, vista la mala parata e svanita l'illusione di soddisfare i propri pensieri libidinosi, si era deciso a far tornare Prospera, e noi tre, al punto di partenza.
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Matilde volle lasciare una mancia al vetturino “per la sua simpatia”, disse. Io l’avrei lasciata a Prospera per il suo silenzio. In realtà il vetturino non era né vecchio né libidinoso, aveva solo voglia di chiacchierare con qualcuno che non avesse zoccoli ferrati. Il fatto era che Matilde non mi aveva fatto una buona impressione, questione di pelle, chiacchierava troppo e non lasciava spazio, e questo mi aveva mal disposta. Parlava per elencazione, i suoi studi..i suoi progetti per l’avvenire..i suoi viaggi..e le cose che non sopportava. Fra le tante cose che non sopportava ricordo particolarmente l’odore, o la puzza come diceva lei, di cavolo, cioè proprio quello che avrebbe avvertito appena entrata nell’androne del palazzo. Avevamo intanto liberata la sua bicicletta dalla stretta morsa del palo a cui l’aveva lasciata in custodia e ci avviavamo verso casa quando incontrammo Viola, una mia collega di studio: “Lei è Viola, l’unica cosa che non sopporto io” , avrei voluto presentarla così.
Senonché rimasi basita dalla presenza accanto a lei di un uomo che, si vedeva benissimo, la stava importunando. Faceva dei discorsi noiosi su cose che non interessavano a Viola e neanche a noi. Alla fine l'uomo, disturbato dalla nostra presenza, si allontanò. Ci trovammo subito tutte e tre concordi nell'affermare che l'uomo era davvero volgare. Decidemmo che il tizio importuno si chiamava Homo Vulgaris. Salutammo Viola e proseguimmo verso casa.
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Era infine giunto il momento di fare i conti con me stessa, con il passato che stancamente mi trascinavo dietro, con ciò che il futuro mi stava apparecchiando. Matilde, Matilde, mi dicevo, come tenero sarà il tuo collo! Per quanto tempo, mi dicevo anche, avrei resistito alla tentazione? Come avrei potuto evitare di cedere al selvaggio impulso che in una notte di luna, come in altre trascorse occasioni era accaduto, mi avrebbe trascinata a varcare la porta che si apre sul bordo dell’abisso? Già quel torrente di parole, quella cateratta di frasi inutili e senza senso come nemmeno nel blog di Silvio si trovano, esasperava la mia brama, affrettava il momento in cui le mie dita si sarebbero strette sulla sua gola per farla per sempre tacere. E sapevo anche che se una speranza di salvezza c’era, per quanto incerta ed improbabile, solo da Viola poteva venire.
Quanto più mi lasciavo guidare da Matilde verso quella che sarebbe presto divenuto la mia nuova casa tanto più realizzavo con un sentimento di terrore, e insieme desiderio, che la mia nuova amica mi avrebbe condotta proprio lì, al numero 8 di via Spampani, proprio al secondo piano di un condominio grigio senza ascensore con le scale spalmate di odore di cavolo al ragù, proprio in quell'appartamento, l'appartamento nel quale avevo compiuto il mio primo delitto.
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Non molto lontano, in linea d’aria, si affaccia la finestra del commissario Vincenzo Maninalto,un bel quarantenne che se la rideva della vita perché fortunato in tutto, soprattutto con le donne e nella carriera di poliziotto. Le donne le stendeva tutte, così come i furfanti. Scapolone incallito, ama solo sua madre Violante con la quale vive e nella quale cerca riparo dal matrimonio. La mamma e la Fiorentina sono gli unici punti di riferimento della sua vita, il resto sono solo crociere in mare aperto ma dal sicuro ritorno in porto. Insomma, della vita se la ride. Da un paio d’anni, però, ha un tarlo dentro che gli ha mandato in malora una buona parte del suo spirito: un delitto rimasto irrisolto, una vecchia paralitica strangolata nel suo letto, in via Spampani, 8.
Si trattò di uno dei delitti più efferati di cui si fosse mai occupato: la donna fu trovata in perfetto stato di conservazione, i pregiati abiti di sartoria nuovi di zecca, il volto ingentilito da una cipria rosa e da un rossetto vivace che le imprimeva un eterno sorriso sardonico. Pietromasi, il medico legale di turno in quell'estate afosa, stabilì che poteva essere morta da almeno sei mesi. Per gli accertamenti sulla causa del decesso dovette trascorrere tutto agosto.
Il commissario Maninalto stava pensando alla sua ultima fidanzata, se così si poteva definire, una giovane studentessa padovana, Viola Mignottin, che da qualche anno frequentava, inutilmente, l'Università di Firenze...quando ancora una volta i suoi pensieri ripresero ad attorcigliarsi intorno al caso di via Spampani. Il cadavere della donna era fresco come una rosa alla prima rugiada, eppure gli accertamenti medico-legali stabilirono che la donna era morta già da sei mesi.
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Lapo Cecchi, giovane psicologo appena laureato all'Università di Firenze, chiuse il libro e iniziò a singhiozzare. "No, cazzo, non ce la farò mai" borbottò lasciando cadere il dattiloscritto in terra. Si buttò sul letto e scoppiò in un pianto disperato. Era già la quarta notte che passava in bianco, leggendo e rileggendo la copia del romanzo, se così si poteva definire, “Il monolocale”. Non ne aveva cavato un ragno da un buco, per usare una espressione abusata che probabilmente non sarebbe risultata stonata nel testo che andava analizzando da giorni, imprecando ad ogni piè sospinto contro l’autore. Per mezzora di seguito lasciò correre le lacrime e i singhiozzi con la faccia contro il cuscino per la rabbia accumulata in tutte le settimane nelle quali aveva sperato di mettere a segno il colpo della sua vita, di raggiungere il successo insperato, per poi disilludersi una volta che aveva toccato con mano la realtà. Esaurite le lacrime e la rabbia, Lapo trascinò il suo metro e ottanta di muscoli in cucina, guardò triste il frigorifero pieno di schifezze gastronomiche, tirò fuori la busta del latte, ne versò qualche decilitro in un pentolino semisporco e accese il gas. Mentre il latte scaldava e la colazione notturna alla fine fu pronta, Lapo pensava alla concatenazione di eventi che lo aveva portato al punto nel quale si trovava. A venticinque anni gli era venuta l’idea di iscriversi a Psicologia. Anni di body building e di allenamenti in palestra non erano bastati a farlo diventare l’uomo sicuro di sé che aveva sognato di diventare fin dai primi momenti nei quali gli ormoni avevano cominciato a infestare il suo corpo. Anni difficili nei quali la conquista del sesso femminile era diventata per lui un’ossessione. Sempre timido di fronte alle compagne di classe e alle amiche era stato sistematicamente respinto nei rari tentativi di approccio all’altro sesso. Lo sviluppo muscolare era parso a Lapo, all’inizio, il modo ideale per affrancarsi dalla timidezza. Più avanti era arrivata anche la prima ragazza, Giorgia, un bel pezzo di figliola dal carattere allegro e socievole. Ma Lapo aveva capito che, al di là dei muscoli, quello che ci voleva era un sano sviluppo emotivo. Così gli era venuto in mente che la strada migliore sarebbe stata quella di diventare psicologo, perché poi anche gli altri, i suoi futuri pazienti, avrebbero potuto beneficiare del riscatto e della guarigione di un ex timido. Giorgia era rimasta entusiasta dell’iniziativa di Lapo e l’aveva sostenuta con grande fervore, anche contro i genitori di lui, i quali consigliavano al proprio figliuolo di continuare la carriera di venditore al banco del pesce fresco dell’Ipercoop di Lastra a Signa. Ma a Giorgia forse stava un po’ stretto il ruolo di fidanzata di un impiegato di supermercato, così, dopo un anno di domeniche pomeriggio trascorse, Lapo, non lei, sui libri, lo aveva mollato e s’era messa con il figlio del direttore dello stesso supermercato, un omino attempato dai capelli grigi, il diploma di dirigente di comunità comprato in un istituto privato e il BMW Z4 in garage. Lapo, dopo un periodo di sbandamento durato un paio d’anni, impantanatosi in materie come Fondamenti anatomofisiologici dell’attività psichica e Statistica psicometrica, che prima di iscriversi non aveva neanche notato nel piano di studi, s’era messo di buzzo buono a studiare, forse, inconsciamente, per dimostrare alla ex le doti delle quali ancora si erano viste poche tracce. Alla fine, con un po’ di tempo e caparbietà, era riuscito a strappare un 89 alla commissione di laurea presentando una tesi sconclusionata in Criminologia. Il relatore era stato Giovanni Dal Moro, un professore relativamente giovane che sembrava interessato, più che ad approfondire la propria materia di insegnamento, a raccattare qualcosa dall’orda di ragazzine che bazzicavano la facoltà di Psicologia. In ogni caso il nostro Lapo l’aveva sfangata e, appena laureato, aveva iniziato il periodo di tirocinio necessario per realizzare il proprio sogno: diventare psicologo. Il Dal Moro aveva accettato la sua richiesta di entrare a far parte per sei mesi del proprio staff, ovvero a portargli la borsa, e fu quasi un miracolo, visto che si diceva nei corridoi della facoltà che i suo unici due criteri di scelta erano la voluminosità delle tette e la rotondità del sedere. Fin qui, pensò Lapo mentre consumava il suo latte con biscotti, la storia era stata una ordinaria storia di uno studente sficato e di un professore incapace che sopravvivevano alla quotidianità dell’esistenza come meglio potevano. Ciò che aveva cambiato il destino dei due era stata una stupefacente serie di delitti che aveva sconvolto Firenze nella primavera-estate del duemilaotto. Venti studentesse americane, a Firenze per frequentare alcune delle numerose Università presenti in città, erano state strangolate perlopiù nel proprio appartamento da un serial killer a cui era stato subito affibbiato, senza grande sforzo di fantasia, il soprannome di Mostro di Firenze 2, per distinguerlo dall’altro Mostro di Firenze, che aveva fatto fuori otto coppiette negli anni Settanta e Ottanta nei dintorni della città. Il Mostro 2 si era dimostrato subito più efficace e rapido del predecessore. Dal primo maggio al trenta ottobre di quell’anno aveva strangolato le sue venti vittime, tutte ricche e carine, che almeno ebbero la fortuna di incappare in una morte rapida: il serial killer non ebbe mai bisogno di lottare per sopraffarle e le indagini dimostrarono che i corpi non avevano addosso alcun segno di violenza sessuale. Nei sei mesi nei quali si erano compiuti i delitti il professor Dal Moro si era dato una sistematina al look, già abbastanza appariscente, facendosi crescere un piccolo pizzo sul mento, cambiando la montatura degli occhiali e impomatandosi sovente di gel i capelli piuttosto lunghi. Dopo di che si era buttato in un tour de force quotidiano di comparsate televisive e radiofoniche, di interviste giornalistiche, di articoli per riviste patinate, nel quale spiegava l’inspiegabile della personalità, dei comportamenti e dei pensieri del nuovo mostro di Firenze. Per sostenere una tale mole di lavoro aveva dovuto farsi aiutare dal suo collaboratore, Lapo Cecchi, che, terminate le sue otto ore lavorative a servire pesce, si precipitava a casa a preparare materiale per il suo prof, ormai divenuto celebrità. Il nostro Lapo, inizialmente, aveva avuto molte remore a passare suggerimenti al docente, poiché non si sentiva in grado di maneggiare in modo adeguato la materia. Poi si era fiondato in biblioteca a reperire testi che potessero aiutarlo, infine, stremato dalla fatica del doppio lavoro, aveva cominciato a cercare su internet quello che gli serviva, all’inizio con una certa pignoleria nel valutare l’attendibilità delle fonti, poi semplicemente copiaincollando dai primi risultati che gli apparivano digitando la parola scelta su google. Ora, però, la faccenda si era fatta seria perché il killer aveva lasciato nell’appartamento dell’ultima vittima un testo dattiloscritto, rilegato in copisteria, dal titolo “Il monolocale”. La Procura della Repubblica aveva dato incarico alla Polizia Scientifica di analizzare l’originale per ricavarne, dal materiale fisico, indizi utili alla soluzione del caso, e al professor Dal Moro aveva fatto avere copia del “romanzo” perché riferisse, attraverso l’analisi del contenuto, sulla personalità e le abitudini dell’omicida. Ci si era chiesti subito se l’assassino avesse deliberatamente lasciato sul letto della vittima il dattiloscritto e perché: perché nel suo inconscio voleva esser scoperto, per sfida alla polizia, eccetera. Queste risposte, e forse anche la soluzione del caso, erano nelle mani del professor Dal Moro. Il quale, recitando ormai la parte dell’esperto, non poté tirarsi indietro e accettò l’incarico, continuando senza sosta il suo tour mediatico e lasciando l’incombenza al povero Lapo. Ripercorrendo con il pensiero, tra un sorso di latte e un biscotto del Mulino Bianco, tutti gli eventi che lo avevano portato all’attuale situazione catastrofica, Lapo si era intanto ripreso dallo stato di annebbiamento psicologico nel quale si trovava. Tornò in camera, riprese di nuovo in mano la copia del libro e disse tra sé: “Dove ero arrivato? Ah, sì: Il cadavere della donna era fresco come una rosa alla prima rugiada, eppure gli accertamenti medico-legali stabilirono che la donna era morta già da sei mesi.”.
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Viola dunque aveva appena conosciuto la mia prossima coinquilina. Avevo subito colto nei suoi occhi un lampo... Era il lampo di uno sguardo che nasconde, dietro parole e modi perbene, verità oscure e segreti non confessabili.
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Nel suo ufficio al secondo piano della Questura il commissario Maninalto si reggeva il grosso capoccione fra le mani, con i gomiti piantati da più di un’ora sul piano della sua scrivania... l’afa lo aveva costretto a liberarsi prima della giacca, poi della cravatta e infine della camicia: era rimasto a torso nudo, un’informe soufflé che si squagliava in tanti rivoli. Non era il Mostro 2 che lo preoccupava, innanzitutto perché di studentesse americane vive, a Firenze, non ce n’erano più e poi perché non voleva occuparsene, non voleva pensarci, sperava in un epilogo come quello di tre anni prima. Quando ripensava all’ultima caso di serial killer gli saliva la febbre a quaranta. Era successo tre anni prima, nel mese di luglio, uno dopo l’altro sette trans con la gola tagliata. Gli investigatori brancolavano nel buio, come si dice in questi casi, e fu così che aveva deciso di tendere una trappola al malandrino. Detto fatto, in quattro e quattr’otto un’accurata depilazione alle gambe, minigonna vertiginosa (aveva delle gambe niente male), reggiseno superimbottito, parrucca bionda a caschetto, trucco esagerato e lucido brown sulle labbra: sembrava la Carrà dei tempi migliori. Così aggiustato prese a battere ( nel senso vero ) in lungo e in largo, per più di un mese, i santuari della prostituzione a Firenze. La missione era topica e non ammetteva scappatoie, del resto glielo aveva insegnato Bordelli, il commissario suo vecchio maestro, che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. Se era veramente un duro quello era il momento di dimostrarlo.. e lo era, lo era…altrochè se lo era! Per più di un mese non si tirò mai indietro, di clienti ne ebbe talmente che potette, alla fine, comprarsi la macchina nuova, ma del serial killer nemmeno l’ombra. Fortunatamente per lui , e che fosse uno fortunato l’avevamo già detto, il serial killer fu trovato impiccato, suicida, nella cella frigorifero di una macelleria all’Isolotto: nella tasca dei pantaloni recava un biglietto sul quale erano annotate circostanze talmente particolareggiate dei suoi crimini da non lasciare ombra di dubbio sul fatto che fosse proprio lui il serial killer dei trans. Questo permise a Maninalto di ritornare alla sua vita normale, sia pur con qualche comprensibile turbamento. Per dovere di cronaca va detto che nei mesi successivi le pagine degli annunci de “la Nazione” furono inondate di messaggi di anonimi alla disperata ricerca di una misteriosa Kataryna, poi col tempo anche le pagine degli annunci tornarono alla normalità. No, non era il pensiero del Mostro 2 che lo tormentava ma sempre l’omicidio di via Spampani. Fu un rumore sordo dal corridoio che lo fece sobbalzare e di nuovo a renderlo presente, ma non presentabile, a se stesso, e così gli occhi non poterono fare a meno di posarsi ancora sul rapporto, ormai zuppo del sudore che continuava a grondare a rivoli dalla sua fronte, che da qualche settimana giaceva sulla sua scrivania: era del medico legale, il suo amico dott. Strappacore, col quale condivideva siffatta macelleria. Il rapporto riguardava gli esami autoptici eseguiti sui cadaveri delle ragazze americane, quasi tutte… eccezion fatta per due di esse… avevano nello stomaco tracce di una particolare sostanza chimica usata generalmente nei processi di potabilizzazione dell’acqua. La sostanza non era stata la causa della morte ma poteva essere un indizio importante per le indagini. Finalmente Maninalto si decise, dopo averci pensato due settimane, a convocare in Questura l’ingegner Bagnato, direttore tecnico dell’acquedotto. Lo conosceva bene il Bagnato per una vecchia storia riguardante una contestazione sul pagamento di una bolletta dell’acqua. Ma ecco che, al momento di allungare il braccio verso il telefono, questo squillò : “Maninalto”…rispose, ”Ah..Ah..Ah… mani in alto a chi?”…una voce maschile camuffata, sorda e beffarda, dall’altra parte del filo, “prima prendimi!...ah..ah..ah… comunque in via dei Platani c’è lavoro per te, nel garage del numero sei… e porta il tuo amico Strappacore. Ah..ah..ah…” Riattaccò. Con uno scatto d’insospettabile dote atletica Maninalto si precipitò fuori dalla stanza afferrando al volo la giacca, camicia e cravatta rimasero dov’erano, di corsa giù per le scale e quando ancora non l’ebbe scese tutte gridò all’agente di guardia: “Una volante… presto!.. e tira giù dal letto Il dott. Strappacore, digli di venire subito in via dei Platani al numero sei”. Attraversarono a sirene spiegate la città deserta, a quell’ora della notte, e in pochi minuti giunsero sul luogo indicato. Via dei Platani era costeggiata da un lato da un’interminabile fila di tigli e dall’altro da villette a schiera. Quella del numero sei sembrava disabitata ma dalla fessura della bascula socchiusa del garage trapelava la luce accesa al suo interno. Si diresse si corsa, insieme ai due agenti, verso il garage e afferrò la bascula per sollevarla… In quell’esatto momento un uomo, un vetturino, entrava nella questura: era stravolto, il volto pallido e contratto, farfugliava... poi finalmente, dopo un attimo di pausa per raccogliere i pensieri, disse all’agente di guardia che doveva denunciare la scomparsa del suo cavallo. Una cavalla, per l’esattezza. Era tutto quello che aveva per guadagnarsi il pane… era rovinato! Quando la bascula raggiunse il fine corsa l’immagine che si compose al loro sguardo fu quella di un cavallo morto, disteso sul fianco sinistro e la testa verso il fondo del garage. Nel garage c’erano due scaffali ricolmi di oggetti di vita familiare accantonati nel tempo. Mentre Maninalto e i due agenti rovistavano gli scaffali arrivò, col fiatone, il dottor Strappacore che subito si diresse verso il corpo esamine del cavallo. Pochi secondi ed emise il suo verdetto: “morte per strangolamento, niente impronte digitali… l’assassino, anche questa volta ha usato i guanti”.
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Lapo Cecchi si concentrò per un’ora intera su questo brano del Monolocale. Sembrava scritto in un’unica tirata, forse l’assassino era stato preso dal sacro furore della scrittura in una notte di luna piena dopo uno degli ennesimi delitti. Era uno dei numerosi passaggi nel quale l’autore del romanzo, con ogni probabilità anche il serial killer, tirava in ballo se stesso, parlando delle studentesse americane uccise e del Mostro 2, come lo avevano definito prima i giornali locali, negli ultimi tempi moltiplicatisi a vista d’occhio, e poi quelli nazionali. E se il serial killer fosse stato un giornalista di uno delle innumerevoli testate giornalistiche fiorentine? Magari un redattore in odore di licenziamento che aveva prima ucciso una ragazza per poterne parlare nel proprio giornaletto, e che poi, avendo visto che la cosa funzionava, aveva continuato per sei mesi interi. O addirittura avrebbe potuto trattarsi di un complotto delle redazioni della Nazione, Tirreno, Corriere di Firenze, Corriere Fiorentino, Repubblica, Leggo, City, Il Firenze, Metro le quali, riunitesi in gran segreto una notte senza luna, mentre la città dormiva, aveva organizzato una sensazionale striscia di delitti la quale aveva fatto schizzare all’insù le vendite di tutti i giornali. I giornalisti poi, godendo di appoggi presso le forze dell’ordine e beneficiando di una rete di relazioni di alto livello, avrebbero potuto controllare ogni singolo dettaglio dei delitti per non far arrivare gli inquirenti alla verità. Questo era uno dei pensieri che passavano a Lapo per la testa mentre si intestardiva a cercare di capire la trama e i personaggi del romanzo “Il monolocale”, uno squinternato e pretenzioso romanzetto da quattro soldi che gli pareva scritto da un individuo dalla personalità multipla. Ogni poche righe il romanzo cambiava tono e registro, si introducevano di continuo nuovi personaggi, si passava dal noir alla commedia al grottesco, non c’era un filo logico, una sequenza, un nesso tra il prima e il dopo, e addirittura sembrava che l’autore non capisse quello che aveva detto poche righe sopra e che litigasse con il se stesso precedente. Un enigma. Comunque Lapo, erano ormai le quattro di mattina, decise di sezionare nei minimi dettagli il “pezzo unico”, uno dei pochi che sembrava filare dall’inizio alla fine. Cominciò a tracciare su alcuni fogli diagrammi, schemi, quadrati, tondi, frecce, linee. Scriveva, annotava, buttava giù tutto quello che veniva in un brainstorming individuale dal quale sperava di ricavare qualche minimo elemento utile per scoprire almeno qualche aspetto della personalità dell’autore. S’era deciso a intraprendere questa strada dopo che gli era venuto in mente l’esame di Criminologia sostenuto con il professor Dal Moro. Aveva sentito dire che il prof apprezzava i compiti schematizzati, così s’era messo a scrivere frasi smozzicate, cerchiandole di rosso o di blu, collegando questi cerchi a un altro quadrato nel quale aveva inserito una parola-chiave e così via. In questo modo aveva strappato al Dal Moro il primo e unico trenta della sua carriera accademica. Alla fine di questo lavoraccio, quello sul romanzo, il Cecchi, si avvicinavano ormai le prime luci dell’alba, si era lasciato cadere sul letto, ancora vestito: alle sei e mezzo sarebbe suonata la sveglia, lo aspettava il banco del pesce dell’Ipercoop. Prima però aveva tentato di proseguire la lettura, tuttavia il libro gli era caduto sulla faccia mentre leggeva la frase “morte per strangolamento, niente impronte digitali… l’assassino, anche questa volta ha usato i guanti”...
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La convivenza con Matilde si rivelò subito difficile, tutto a posto… per carità!... però non riuscivo ad entrare in sintonia con lei e continuavo a sentirmi un’ospite. In una di quelle mattine afose che ci ritrovammo insieme per la colazione, apprendemmo dal giornale del ritrovamento, durante la notte, del cadavere di un cavallo assassinato, dai particolari in cronaca capimmo subito che si trattava di Prospera. “Dio mio, ma com’è possibile?”..esclamai. “Chi poteva avercela con quella poveretta a tal punto? “ replicò Matilde.Il povero animale aveva sicuramente espresso giudizi poco lusinghieri sui turisti di Piazza del Duomo e aveva persino dato di bischero ad un ignoto coglione a cui era andata buca, ma da qui a strangolarla ne corre! “Forse il delitto è maturato nell’ambiente delle corse, magari delle scommesse clandestine” azzardò Matilde. “Ma se era un cavallo da passeggio!”.. obiettai. “Certo le corse le aveva sognate, ma se bastasse questo per uccidere un uomo… volevo dire un cavallo!” La faccenda mi stava agitando non poco quando improvvisamente Matilde… “Perché una di queste sere non inviti quella tua amica..come si chiama?...sì, Viola”. Il caffè non fece a tempo ad andarmi di traverso che sentii il rumore dell’esplosione di una grossa bolla d’acqua, era Spigolo… uno dei due pesci rossi che avevo portato con me in quell’appartamento… anche lui non poteva sopportare Viola. L’altro si chiamava Alice ma le bolle non le sapeva fare. Non le avevo mai detto che, innanzitutto, non era mia amica ma una semplice collega di Università che si dava tanta boria perché aveva numeri da super bomba sexi, da prendersi sulla scala dei multipli, le mie invece erano da sottomultipli e per calcolarle serviva la tabella dei logaritmi, e poi sempre a parlare delle sue avventure con gli uomini…. a sentirla sembrava che tutti si strofinassero in terra al suo solo passare. Non riusciva a completare una frase senza espressioni dialettali, “ mi son de Padova…” terminava sghignazzando come una cammella in amore. No, quella Mignottin proprio non la sopportavo.Ultimamente se la faceva con uno molto più grande di lei… un poliziotto, a quanto si diceva in giro. L’avevo visto qualche volta mentre l’aspettava all’uscita della Facoltà: un bell’uomo, avrei detto finché non l’avessi visto scendere dalla macchina. Però era già la seconda volta che Matilde me lo chiedeva.
Le gambe, le gambe! Le gambe del fidanzato di Viola erano davvero ridicole. Avrebbe potuto anche essere alto, il commissario Maninalto, ma con quelle gambe che si ritrovava non superava il metro e settanta. Ma soprattutto: gambe corte e arcuate, da fantino si sarebbe potuto dire, ma ben più arcuate della media dei fantini. Gambe grassocce e sbilenche che comunque non gli impedivano di avere un certo successo con le donne.
...e ne aveva avuto anche con gli uomini!
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La voce narrante senza nome e i suoi due pesci, Spigolo e Alice. La compagna di appartamento, Matilde. Prospera, la cavalla. Il proprietario di Prospera, il vetturino. Il bischero di Piazza Duomo. Il medico legale Pietromasi. Viola Mignottin, studentessa padovana. Homo Vulgaris. Il commissario Vincenzo Maninalto. Sua madre Violante. Il maestro del commissario, il pari grado Bordelli. La donna anziana uccisa. Silvio, il blogger. Kataryna, la ragazza scomparsa. L’ingegner Bagnato. Il dottor Strappacore.
Lapo mise in fila su un cartellone bianco di due metri per due, attaccato alla parete di camera con un nastro biadesivo, i nomi di tutti i personaggi che aveva incontrato finora leggendo “Il monolocale”. Chi erano tutti questi personaggi? Che cosa rappresentavano? Che legame avevano con i delitti di cui l’autore, o gli autori, si erano resi responsabili? L’aspirante psicologo aveva rinunciato a comprendere la trama del romanzo, malediceva la propria mediocre cultura letteraria e rimaneva nel dubbio che fosse lui, abituato a leggere Fabio Volo e Giorgio Faletti, a non capire certi meccanismi del racconto o piuttosto che fosse il presunto capolavoro ad essere in realtà, come fin dall’inizio aveva ritenuto, una “boiata pazzesca”, per usare il suo linguaggio fantozziano. Approfondiva lo studio dei personaggi perché presumeva che studiandone le caratteristiche psicologiche avrebbe, forse, magari! intuito qualcosa della struttura di personalità del mostro. Iniziò ad appuntare qualche parola sotto ogni nome: Viola Mignottin (ma esisteva davvero una donna con questo nome o era il frutto della fantasia dell’autore?), studentessa padovana fuoricorso, perbenista, ex fidanzata del commissario Maninalto, cela verità oscure e segreti non confessabili. Freccia. Commissario Maninalto, bel quarantenne, fortunato con le donne(e anche con gli uomini, sembra) e nel lavoro, scapolo, vive con la madre, tifoso della Fiorentina (la Viola…), unico cruccio un vecchio delitto. Freccia. La donna anziana uccisa, cadavere in perfetto stato di conservazione, via Spampani 8. Freccia. Matilde, studentessa… E così via. Dopo due ore e mezza di lettura della prima parte del romanzo, rilettura, frecce, cancellature, schizzi, linee, collegamenti, il Cecchi aveva riempito i due metri per due di cartellone e si fermò a guardarlo, a scrutarlo, a osservarlo a distanza, piegando ora la testa, poi avvicinandosi, poi ritoccandolo appena, e mentre faceva questo si vedeva protagonista di un film hollywoodiano nel quale l’eroe, distrutto dalla fatica, ha un lampo negli occhi, eureka! sembra dire con l’espressione facciale, ho trovato, sono un genio, ho rimesso insieme tutti i pezzi, ho avuto un insight, ho capito tutto. Per un quarto d’ora gli sembrò di essere come l’eroe di tanti film che aveva visto da ragazzino e che continuava a sorbirsi anche una volta cresciuto, ma l’insight, l’idea illuminante non arrivò mai. Si mise a sedere stravolto dalla fatica psichica che lo aveva impegnato così a lungo, prese il telecomando in mano e decise di mettere a riposo il cervello accendendo la televisione. “…ttima è stata trovata nel proprio appartamento del centro di Firenze, a pochi passi da piazza Santa Croce, priva di segni di violenza sessuale. Ancora una volta sembra che l’omicida non abbia lasciato tracce di sé e che il ventunesimo omicidio della serie sia stato compiuto con le stesse modalità dei delitti precedenti. Il Procuratore capo della Repubblica di Firenze ha dichiarato…”. Lapo lasciò andare le braccia lungo il corpo, le mani si aprirono da sole e il telecomando cadde in terra. Gli occhi sbarrati persi nelle immagini di repertorio del telegiornale speciale, le orecchie ormai chiuse, nemmeno curiose di ascoltare i dettagli del nuovo omicidio. Il tirocinante psicologo cominciò ad avvertire un certo malessere, malessere fisico, psichico anche, dopo tutto quel lavorìo mentale a cui non era avvezzo, ma soprattutto morale, sì, morale, cominciò a sentire che così non poteva andare avanti, non poteva continuare a giocare allo psicologo criminale, forse il professor Dal Moro, non lui, lui era di un’altra stoffa, non era abituato a mentire agli altri e neanche a se stesso, si mostrava così come era, con i suoi innumerevoli difetti e i pochi pregi, ma reali, lui non sopportava quel professore perennemente atteggiato a professionista dell’inconscio, tutto apparenza e niente sostanza, nel quale alla fine, se fosse continuato questo andazzo, avrebbe potuto prima o poi trasformarsi. Si alzò di scatto e si diresse senza indugio al cellulare poggiato sul tavolo. “Basta, ora convoco una conferenza stampa e dico tutta la verità” pensò “Il professor Giovanni Dal Moro è un emerito citrullo che non sa niente di teorie psicologiche e costrutti mentali, il novantacinque per cento delle bischerate che va dicendo in televisione gliele ho suggerite io, io, Lapo Cecchi, un mediocre tirocinante di psicologia incapace di enunciare un qualsiasi modello psicologico mai elaborato da Freud in poi e soprattutto incapace di comprendere alcunché di una qualsiasi mente criminale fosse anche un vandalo sorpreso a imbrattare i muri dell’università con uno spray rosso.” Sì, sì, Lapo voleva denunciare tutto per liberarsi di un peso, il peso di aver accettato le proposte demenziali del proprio relatore di tesi di laurea, ora tutor che gli avrebbe permesso, con le sue firme, di sostenere l’esame di stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo. Voleva liberarsi dal peso di essere in qualche modo, anche minimamente, corresponsabile nella morte di una ragazza innocente. Ma mentre pensava questo e cercava il numero della Nazione sulle pagine bianche, al nostro Lapo erano balenati in testa altri pensieri, meno nobili e più prosaici, tuttavia molto concreti. Non era in grado di parlare per oltre un minuto ad un gruppo che superasse le cinque persone, poi la gola gli si attorcigliava, le corde vocali sembravano chetarsi e il viso diventava rosso nel tentativo di recuperare il fiato perso per l’emozione. E le telecamere? Ogni volta che se ne avvicinava una, magari durante il battesimo di un biscugino o la festa di compleanno di un amico, non riusciva mai a stare rilassato, il cervello gli si obnubilava e non era mai in grado di emettere una frase che avesse un qualche senso. Figuriamoci se era in grado di spifferare tutti i suoi segreti in diretta tv, davanti a operatori televisivi che avrebbero trasmesso la sua faccia terrorizzata in mezzo mondo. Se anche fosse riuscito a farsi capire, tra parole ciancicate, frasi smozzicate e balbettii imbarazzanti nessuno lo avrebbe preso sul serio, non sarebbe stato in grado di rispondere ad alcuna domanda chiarificatrice e si sarebbe coperto di ridicolo di fronte a tutti i suoi amici, parenti e conoscenti. No, no, meglio attendere e sperare nel colpo di fortuna. In fondo è quello che stavano facendo tutti coloro coinvolti in qualche modo nelle indagini: si mettevano delle idee in testa e volevano per forza trovare elementi che confermassero le loro ipotesi. Intanto però il mostro continuava a uccidere, seppure con una frequenza minore, e nessuno era ancora vicino alla soluzione del caso.
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Quando la nuova dottoranda in medicina legale passò la chiamata di Maninalto al professor Pietromasi, il medico legale credette di dover confermare l'appuntamento dallo Scheggi per il solito panino alla finocchiona prima della partita di Coppa. I due avevano sviluppato una sottile competizione sin dai tempi del liceo Michelangelo, quando in assemblea di istituto si fronteggiavano politicamente con toni altisonanti al solo scopo di rimediare una pomiciata (e magari qualcosina di più) con qualche figliola ben disposta. A distanza di anni, e spesso costretti a lavorare gomito a gomito, i due si tolleravano poco ma per abitudine consolidata rinnovavano insieme di anno in anno l'abbonamento in tribuna coperta per condividere l'unica passione che li univa: la Fiorentina.
- Papa Waigo stasera ce lo perdiamo. - disse il commissario - c'è un'altra vittima. Devi raggiungermi sul luogo del delitto per accertare in via preliminare le cause del decesso.
- Cazzo, ancora il serial killer delle americane?
- Sì. Ti aspetto. E portami un antiemetico. Attaccò rabbioso il telefono e neppure gli occhioni celesti della dottoranda riuscirono a placare il vorticoso giramento di coglioni che lo stava pervadendo.
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La vita di Lapo era cambiata. Aveva un unico pensiero fisso: il mostro. Dormiva poco, mangiava molto, spiluccando tutto ciò che capitava dal frigo. Le ore di lavoro erano solo un intermezzo fastidioso e necessario tra un’analisi e l’altra del romanzo e delle notizie di cronaca, tutte le altre attività, a parte lavarsi e fare la spesa, erano scomparse dalla sua vita.Anche la vita di Firenze era cambiata come non mai. Con i primi omicidi, e sempre più via via che la sequenza di delitti cresceva di numero, si registrò un calo netto dell’afflusso turistico. La Federalbergatori denunciava un quaranta per cento in meno di presenze in sei mesi, la Confcommercio chiedeva interventi straordinari del governo a sostegno dei negozianti, i ristoratori sostenevano che avrebbero presto chiuso tutti quanti, le numerose famiglie che cedevano parte della propria casa in affitto agli stranieri smisero perlopiù di farlo. Tutti limitavano le proprie uscite serali, anche se i delitti, a dire il vero, erano stati commessi tanto di giorno quanto di notte. Le donne non viaggiavano più sole, specialmente le straniere, ma anche le vecchie signore italiane. Le americane poi non si vedevano quasi più e alcune università per stranieri, visto il calo drammatico degli iscritti, una volta terminato il semestre di studi mandarono a casa molti impiegati. In compenso avevano fatto affari, oltre agli edicolanti, i venditori di lucchetti, serrature, porte blindate, spray antiscippo e addirittura mazze da baseball. Ci fu chi inventò e mise sul mercato uno speciale collare di ferro che avrebbe scoraggiato con matematica certezza lo strangolatore. I turisti non arrivavano più, ma un nugolo di giornalisti, fotografi, operatori televisivi e radiofonici si era stabilito in città. Accanto a loro non mancarono poliziotti, carabinieri, ispettori, guardie del corpo, addirittura detective privati professionisti o improvvisati. Tutti andavano a vedere, a curiosare e spesso a indagare. Pochi ormai venivano a Firenze per gli Uffizi, il Duomo e piazzale Michelangelo. Gli accompagnatori turistici preparati a parlare ore su Giotto, Brunelleschi e Arnolfo di Cambio dovettero reinventarsi esperti di tour criminologici, scorazzando per tutto il centro e la periferia i forestieri disinteressati a Dante e bramosi di conoscere i luoghi dei delitti. Fu istituito un numero verde per le segnalazioni sul caso. In Questura fu invece aperto uno sportello speciale per la folla di persone che si autodenunciava, dichiarando di aver commesso tutti gli omicidi.Si registrò poi una sensazionale e inattesa inversione di tendenza nei rapporti sociali. Molti cominciarono a guardare in cagnesco tutti i possibili sospettati, cioè sostanzialmente metà dei conoscenti e parenti poiché del mostro non si sapeva un accidenti di nulla. Ma questo era l’aspetto deteriore del fenomeno. La cosa più interessante fu che i fiorentini ricominciarono a parlarsi davvero. Ognuno voleva dire la sua e tutti ascoltavano tutti. Nei bar o nelle piazze, dal barbiere o davanti all’edicola era un turbinio di discussioni più o meno animate, di chiacchiere come quelle che si potevano ascoltare quando Firenze non era una città internazionale ma un paesone raccolto attorno a Palazzo Vecchio. E’ vero che la notte non usciva quasi nessuno, e i cinema, i teatri, i ristoranti, i pub erano vuoti, ma la gente si trovava a casa degli amici o dei parenti e parlava, parlava, parlava.I fiorentini poi non mancarono di mettere in campo nell’occasione il loro tradizionale umorismo, anche in un momento tragico per la città. Il serial killer, il Mostro 2, come lo definivano i giornali, lo spietato omicida, come lo definivano gli scrittori privi di originalità (era fiorito nel frattempo anche un intero filone di editoria criminologica: riviste, pamphlet e romanzi), per tutte le persone comuni di Firenze e dintorni era “Lallo, il mostro di San Gallo” (molti omicidi erano stati commessi nei pressi di via San Gallo, dove si trovava la sede della Questura, quasi fosse una sfida dell’assassino alla polizia). Gli uomini di una certa età facevano a gara per inventare barzellette su Lallo e in occasione delle partite della Fiorentina i tifosi si scatenavano a mostrare striscioni sull’argomento. “Oggi più di ieri / Lallo, Mutu e Bobo Vieri”, “Lallo, vieni, ti presento la mi’ moglie” (o la variante: “Lallo, la mi’ socera vive sola e parla inglese”), “Meglio un mostro in casa che un bianconero all’uscio”.Ma Lapo aveva poca voglia di scherzare. Si sentiva in una morsa di impegni e doveri morali ai quali non riusciva a sottrarsi. I momenti di entusiasmo, nei quali gli sembrava che la soluzione sarebbe presto arrivata, si erano fatti sempre più rari e il libro lo leggeva e rileggeva sì, ma non ci si capiva nulla.
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Matilde uscì lasciandomi finalmente sola. Da molto tempo la mia vita era cambiata, ma di ciò che fosse prima ancora non ho ricordo. Anche allora fui presa dall’improvviso ricordo di quella notte, quella notte in cui sono nata. Non riesco a pensare alla mia vita prima di allora, la mente è vuota, mi succede sempre più spesso. Quel giorno cominciai a sentirmi male, mi girava la testa, avevo freddo, poi improvvise vampate e gli occhi... gli occhi rossi come il fuoco. Improvvisamente quella visione, sempre la stessa: lui era bellissimo quando incontrai i suoi occhi, era immobile con uno strano sorriso che gli usciva dalle labbra stranamente rosse. Il volto bianco come la cera e quegli occhi inerti, indefinibili, come morti, che non sono più riuscita a togliermi dalla testa. Era comparso come dal nulla, come un brivido gelido. Non ricordavo più nulla, come se tutto intorno a me fosse sparito. Quando alzò lo sguardo mi sentii sprofondare come in un vortice nero. Ero paralizzata. Poi vidi la luce e mi ritrovai in camera mia, nel mio letto, senza sapere come.
Una buona scorta di antiemetico la teneva anche il dott. Strappacore, il medico legale aggiunto, per forza di cose, al vecchio Pietromasi il quale neanche lavorando giorno e notte riusciva più a tenersi in pari col lavoro. Il cadavere della ventunesima vittima giaceva lì immobile (e non poteva essere diversamente) sul tavolo dell’obitorio , già offriva la gola e il ventre al bisturi di Strappacore. Il medico indugiava nell’affondare la lama, sapeva che avrebbe prima dovuto vomitare.. come sempre... prima di iniziare. Quel lavoro l’aveva sognato fin da quando, da bambino, aiutava la mamma a pulire le alici. Ma non ci aveva ancora preso la mano, e neanche lo stomaco, dopo trent’anni! I cadaveri puzzano, e quando l’hai sentita una volta quella puzza ti rimane in gola e nella testa per tanto tempo, se poi continui a passare le giornate, e tante nottate, in compagnia di questi ex signori allora puoi solo cercare di aiutarti con degli antiemetici.I cadaveri si gonfiano, anche, per via di certe reazioni enzimatiche che producono gas metano, e in qualche caso particolare possono anche esplodere. Ma lì l’unico pericolo d’esplosione era legato al suo stomaco e infatti dovette presto correre a vomitare, una volta non aveva fatto a tempo ed aveva vomitato sulla faccia del bel giovanotto che se ne stava stecchito sdraiato in attesa di conoscere la causa della propria morte.
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Lapo concluse per l’ennesima volta la lettura del romanzo. Non disse niente e non pensò niente. Ormai era rassegnato a non capire. Il romanzo si concludeva così: Ma lì l’unico pericolo d’esplosione era legato al suo stomaco e infatti dovette presto correre a vomitare, una volta non aveva fatto a tempo ed aveva vomitato sulla faccia del bel giovanotto che se ne stava stecchito sdraiato in attesa di conoscere la causa della propria morte. Non aveva senso: lasciarlo così, troncato a mezzo, senza riprendere il filo della storia e senza portare il lettore a una conclusione. Se la storia frammentata e intrinsecamente contraddittoria aveva convinto Lapo che l’autore era affetto da disturbo di personalità multipla, il fatto che il romanzo terminasse come se fosse troncato a metà non disse niente all’aspirante psicologo. Lapo chiuse il libro e pochi secondi dopo il telefono squillò. Era il professore, che portava una notizia sensazionale. Accanto al corpo della ventunesima vittima era stata rinvenuta una nuova versione del Monolocale. Lapo non seppe se gioire o disperarsi. La sera successiva il Cecchi fu di nuovo al lavoro, il suo secondo lavoro, non quello di venditore di pesce all’Ipercoop di Lastra a Signa, ma quello gratuito di aspirante psicologo che ha intrapreso una lunga e difficile lotta a distanza con Lallo, il mostro di San Gallo. Lapo tirò giù le serrande di camera, si mise a sedere di fronte alla scrivania, accese la lampada poggiata sopra e aprì il libro con una forte ansia e un moderato ottimismo. Il titolo era lo stesso, e l’autore, il serial killer, aveva riportato in terza pagina un elenco dei personaggi già presenti nella prima versione, quasi a semplificare il compito del lettore, o forse quasi a prendersi gioco di lui: La voce narrante senza nome e i suoi due pesci, Spigolo e Alice. La compagna di appartamento, Matilde. Prospera, la cavalla. Il proprietario di Prospera, il vetturino. Il bischero di Piazza Duomo. Il medico legale Pietromasi. Viola Mignottin, studentessa padovana. Homo Vulgaris. Il commissario Vincenzo Maninalto. Sua madre Violante Il maestro del commissario, il pari grado Bordelli. La donna anziana uccisa. Silvio, il blogger. Kataryna, la ragazza scomparsa L’ingegner Bagnato. Il dottor Strappacuore, medico legale. Il professor Pietromasi, medico legale La dottoranda. L’incipit era lo stesso della versione precedente, ma questa volta il racconto prendeva strade diverse… Il Monolocale (seconda edizione) Abitavo con un’amica in un monolocale un po’ fuori dal centro, al secondo piano di un palazzo grigio senza ascensore con le scale spalmate di odore di cavolo al ragù e aspettavo che uscissero le graduatorie dell’università per l’assegnazione dei posti letto alla casa dello studente. Se aprivo la finestra e allungavo una mano, mi sembrava quasi di toccare il semaforo sospeso sul traffico e nei giorni di pioggia, mi divertivo a guardare le striature rosse verdi e gialle che si rincorrevano sull’asfalto lucido e bagnato. Avevo conosciuto la mia amica rispondendo ad un annuncio appeso sulla bacheca della mensa “Cerco ragazza per dividere affitto e spese di monolocale carino, telefonare ore pasti”. Aveva risposto una ragazza con la voce un po’ stridula e avevamo fissato un appuntamento sulle scale del Duomo per il giorno dopo alle tre.
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Il dott. Strappacore ruppe gli indugi e affondò, finalmente, il suo bisturi nei tessuti ormai rigidi del cadavere della ragazza. Con gran pena, perchè per quanto si sforzi, la Morte, di assomigliare sempre a se stessa, Essa non riesce mai a restituire la stessa immagine di sè. Come ogni buon medico legale che si rispetti, Strappacore non era solo abile nella tecnica del dissezionamento, onorando a dovere protocolli e codice deontologico, egli era anche un ottimo patologo e avrebbe potuto riconoscere immediatamente, dalle dimensioni o dal colore, qualsiasi sofferenza che avesse afflitto quegli organi. Niente. Tutto a posto. Sana come un pesce, avrebbe potuto suggerirgli la sua proverbiale vena sarcastica: in altre occasioni, forse, ma non in quella. Del resto le cause della morte erano ben evidenti in quel segno ormai bluastro intorno al collo ceruleo. Erano state mani grandi e forti come ganasce, i segni erano nitidi, netti, e avevano stretto la presa senza lasciarle possibilità di reazione, paralizzandola immediatamente. Si limitò, così, a raccogliere doviziosamente sezioni di tessuti e di organi per il laboratorio.Nella catena delle lavate di testa, che si innesca in faccende di ordine pubblico, il primo anello è rappresentato dal Ministro, che oltre ad essere pressato dalla stampa e dall'opinione pubblica era, in quel frangente, anche parecchio contrariato dalla caduta del governo di cui faceva parte, per miserevoli questioni da Basso Impero, si disse. A farne le spese fu il Prefetto il quale non aspettò due ore per pagare della stessa moneta il Questore, dott. Manganelli, e figuratevi se questi lasciò passare anche solo un quarto d'ora prima di convocare nel suo ufficio, al terzo piano, il Commissario Maninalto. La catena delle lavate di testa è montante come l'onda di piena, che si carica man mano di materia ed energia prima di scaricarsi nel punto finale. Provate ad immaginare quale tsunami stava per abbattersi sul capo del povero Commissario Maninalto, colpevole di non avere ancora messo fuori servizio Lallo, il Mostro 2.
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Non ne poteva più, il nostro Lapo. S’era perso nei meandri del romanzo e dimenticava sempre che il suo compito, che poi avrebbe dovuto essere del professor Dal Moro, era quello di ricavare un profilo di personalità dell’autore del romanzo e non, come stava facendo, comprendere la trama del libro o giudicarne la qualità dello stile. In realtà l’ex studentello non era il solo a comportarsi così. Tutti quelli che erano a qualunque titolo coinvolti nell’indagine, fosse anche trascrivere un atto relativo a uno degli omicidi, si sentivano in dovere di investigare alla ricerca della prova decisiva. Ognuno a Firenze, dal Procuratore capo della Repubblica, detentore dell’indagine, al giornalista di cronaca nera, al poliziotto di quartiere, fino al controllore dell’ATAF e al vigilino della Firenze Parcheggi, aveva dichiarato una guerra personale al Mostro, svolgeva le proprie indagini con i mezzi di cui disponeva e tenendole segrete a tutti gli altri, non chiudeva occhio per scervellarsi a riflettere su tutti gli elementi di cui era in possesso e spesso e volentieri metteva nei guai se stesso o magari contribuiva a complicare le indagini, che erano, come si dice in questi casi, a un punto morto. Un pensionato di 85 anni fu arrestato mentre tentava di aprire la porta dell’appartamento che era stato teatro del dodicesimo omicidio. Uno studente di Chimica fece andare a fuoco un laboratorio dell’università mentre cercava di produrre una sostanza con la quale, secondo lui, il mostro paralizzava le vittime. I Carabinieri indagarono a lungo, sospettando che fosse il serial killer, su un tizio che s’era messo alle calcagna di diverse ragazze straniere, pedinandole giorno e notte: avevano scoperto poi che l’uomo era persuaso che gli fosse stata affidata la missione di proteggere le povere ragazze indifese di Firenze. Per fortuna Lapo, che stupido non era e aveva almeno coscienza dei suoi limiti, non aveva preteso tanto da se stesso e alla fine aveva anche rinunciato a capire. Non ne poteva più di nottate senza chiuder occhio, di cene trangugiate con un giornale sotto gli occhi e la televisione accesa sul telegiornale. Non ne poteva più di non riuscire a pensare altro che al mostro. Non ne poteva più di non vedere più un film al cinema, farsi una corsa al parco o uscire con una ragazza. Era quasi un anno che non faceva l’amore. Un venerdì sera, di ritorno dal lavoro, prese tutto il materiale che aveva accumulato per la maggior parte nella propria camera, ma anche sparpagliato in tutta la casa, lo infilò in due scatoloni, aprì la botola della soffitta, tirò giù le scale pieghevoli e chiuse lassù, lontano dai suoi occhi, tutte le carte che erano diventate la sua ossessione. Poi prese l’aspirapolvere, gli stracci, l’acqua, i prodotti per pulire la casa, aprì tutte le finestra e iniziò le pulizie di Pasqua, anche se era solo novembre. Finito il lavoraccio, a cui non era abituato, si ficcò per una mezzora buona sotto la doccia, strofinando e ristrofinando ogni cellula della sua pelle, si asciugò, si fece la barba, incolta da non si sa quanti giorni, si accorciò le basette, si tagliò le unghie dei piedi e delle mani e si passò dappertutto il borotalco, una cui confezione aveva comprato in un momento di nostalgia dell’infanzia, ma che poi non aveva mai aperto. Infine prese il telefonino, si stese sul letto e compose il numero della donna che aveva desiderato a lungo, alla quale però non aveva mai avuto il coraggio di dichiararsi: Ileana Aldobrandi.

giovedì 28 febbraio 2008

Sesamo e Cartamo

Da pochi giorni è nata la Compagnia Teatrale Sesamo e Cartamo (da leggere Càrtamo, con l'accento sulla prima a). I miei compagni, perché ci sono anch'io, se qualcuno non lo avesse capito, sono: Arianna, Edoardo, Eliana, Ester, Fabio, Fabiola, Franco, Laura, Martina e Riccardo. La stampa internazionale ne ha parlato in lungo e largo (vedi per esempio i due articoli della Nazione e del Tirreno).
Primo obiettivo: superare la selezione di un concorso per compagnie amatoriali. Se tutto va bene intorno a maggio/giugno al Manzoni a Pistoia e al Nazionale a Quarrata presenteremo Exercises (da Esercizi di stile di Queneau). Altrimenti, se la giuria si dimostrerà incompetente, a fine primavera-inizio estate porteremo in scena uno spettacolo costruito da noi (o meglio: dal nostro regista Francesco Rotelli).
Il sito della Compagnia? Calma! Arriverà anche quello.
Ah, perché Sesamo e Cartamo? In India i semi di sesamo sono associati all'immortalità. Il cartamo è un fiore simile allo zafferano, ma non così profumato, usato in cosmetica come colorante, quindi la maschera. Secondo la tradizione popolare possiede la proprietà di prolungare vigore fisico, agilità mentale e attività sessuale.

martedì 26 febbraio 2008

San Salvi / 9

Riassunto delle puntate precedenti. Un precario della Pubblica Amministrazione, condannato a vita a lavorare in un ufficio dell'ex-manicomio di Firenze, sogna di essere uno scrittore e cerca materiale relativo all'ospedale psichiatrico come spunto per il suo primo romanzo, pubblicando i propri appunti per i suoi quattro lettori.

Luciano Buricchi ha scritto per LoGisma Editore “Dovevate vederli”. Nel ‘73 entra a San Salvi come ausiliario. Nel 2003 racconta in questo libro i suoi primi trenta giorni di manicomio.
Nel frattempo c’erano 24 reparti fra uomini e donne 1600 ricoverati, puzzo di creolina e fec,i sguardi di traverso, voci e ancora, tresche amorose gli ultimi elettroshock, camicie di forza e terapia del sonno. Avevo scoperto una cosa incredibile. Al primo piano c’erano una ventina di persone sottochiave. La chiamavano infermeria. Qui venivano ricoverati gli acuti provenienti dal territorio. Ecco perché il reparto era così tranquillo. Il fior fiore era stato rinchiuso. Alcuni reparti erano del tutto aperti e i ricoverati vi potevano liberamente circolare, altri, del tutto chiusi. Poi c’era, ed erano la maggioranza, i reparti che al loro interno nascondevano zone chiuse, nei quali erano riposti i matti meno controllabili. Gli acuti. Questa diversità mi faceva intuire la presenza di approcci diversificati e contrastanti tra loro, non solo alla questione psichiatrica in senso stretto, ma persino al modo di concepire il mondo. La via coercitiva e custodialistica intendeva preservare la parte sana estromettendo il marciume. Di qua i buoni di là i cattivi. L’altra invece si proponeva di occuparsi di questo marciume, pur sempre composto da persone. Conobbi l’allegra compagnia degli alcolisti del Nono Uomini […] Gli alcolisti erano gente navigata. Non vedevano l’ora di dirti quanto. Erano stati tutti qualcos’altro prima. Cuochi, comparse, commessi, operai, avvocati; era per questo essere stati qualcos’altro che amavano differenziarsi dagli altri ricoverati. Adesso avevano dentro quella maledetta tenia del vino ma… una volta. Non erano mica come i matti loro. Erano stati qualcuno, loro. Adesso provvisoriamente… ma le cose sarebbero presto cambiate. “Santini, vieni qua un attimo” lo chiamai. Sempre il cognome. Non dev’essere molto piacevole sentirsi chiamare così per tutta la vita. Mai un Giovanni, un Anselmo, un Ubaldo. E poi quel tu. E tu, vieni qua tu, stai attento tu, tu, tu… tu. Anche persone mai viste prima, vedendolo con quella specie di divisa da matto, gli davano del tu, e lui rispondeva con il lei. … l’ispettore pensò bene di mettere subito alla prova questa mia decisione mandandomi al Quinto. Era sufficiente passarci vicino perché lo chiamavano “quinto merda” […] impugnai la chiave , deglutii, un’ultima boccata d’aria fresca e via dentro. Il segreto era respirare con la bocca e dimenticare il naso. Se avessi subito vomitato mi avrebbero preso in giro per una vita. Mi schizzarono fuori gli occhi, ma non feci in tempo a riprenderli, ero troppo impegnato a dimenticare il naso. Inutile, qualcosa di dolciastro e putrido, di mai sentito mi assaliva alla gola e poi penetrava dagli orecchi, dalla testa, da ogni poro della pelle. Non c’era scampo[…] Nel corridoio, che mi parve angusto e buio, una moltitudine informe si rotolava, camminava, si sdraiava, si arrampicava, faceva versi gutturali, pisciava […] Alla mia destra la porticina del ripostiglio, l’aprii e ci vomitai. E che cazzo. Non mi vide nessuno, ma sarebbe stata la stessa cosa, era al di là di ogni mia capacità trattenermi. Buttai un po’ di segatura sul pavimento dove avevo vomitato e col viso cereo cercai di affrontare la situazione [….] Molti del Quinto erano “matti d’allevamento”, cioè venivano direttamente dal Medico Pedagogico. Una specie di manicomio cadetto per allievi matti. Quando i bambini crescevano venivano portati in serie A, il manicomio vero. I due istituti erano così vicini che nel trasferimento i non più bambini non facevano in tempo a vedere nulla del mondo. Forse un semaforo, delle auto, un’insegna del bar; dei bambini in regola, per mano alle loro madri. Apparizioni mai comprese fino in fondo e che il tempo avrebbe contribuito a rendere fantastiche. Quando un infermiere montava in servizio spesso li vedevi avvicinarsi e sorridenti dire: macchina rossa, semaforo? Chiedevano informazioni sul fuori che per loro consisteva soltanto in una macchina rossa e un semaforo […] La loro autonomia era da favola, consumavano pochissimo: una polpetta, un piatto di minestrone, un bicchiere di vino; non di più, caso mai di meno, E tutto questo per 365 giorni l’anno [….] Si buttavano con voracità su qualsiasi cosa gli venisse messa davanti. Mugolii, gesti, sguardi. Li vedo ancora, urinare per terra e allo stesso tempo mangiare una mistura semisolida fatta con pane spezzettato, minestra e carne tritata. Il piatto unico del manicomio. Alcuni stavano accovacciati sulle sedie, altri si protendevano scivolando, scalzi, su quel pavimento dove minestra e urina si confondevano. Saranno stati in trecento, anche quattrocento forse. La sera si dovevano legare quasi tutti al letto, ma questa, intendiamoci è archeologia. Quando avevi finito con l’ultimo era ora di slegare il primo. Che vita di merda. Fra la paura dell’ispettore, i pazzi e tutto quanto… E le camerette di consegna? Un materasso per terra e via, una coperta. Gli mettevamo quelle tute grigie. Legate dietro. E poi gli spioncini alle porte, come in carcere, che uno ci appiccicava sempre la merda per non farci vedere dentro.

mercoledì 20 febbraio 2008

La porta - Un'epifania di Homo Faber

Quando fu davanti alla porta ebbe un attimo di esitazione, tanto quanto bastava acché l’impulso sfrenato che fino a là lo aveva condotto si esaurisse sgonfiandosi come vescica nel procrastinato mingere. La titubanza divenne incertezza, si dilatò il lasso dell’indugio, quasi ad abbracciare l’ampio spettro delle possibili conseguenze, il braccio restò teso immobile verso la maniglia sulla quale poggiava la mano, le dita esangui nella contrazione. L’insostenibilità stessa della postura vietava una proroga durevole, qual breve miccia non a lungo dilaziona il botto, epperò, ruotando il polso, spinse ed ebbe accesso. Né luce né tenebra v’invenne, siccome avea previsto, ma solo la patina del tempo, con la delusione sarcastica dello spettatore di un film dal finale scontato.
Homo Faber
Esercizi di stile
Carico come una molla, parte a palla e va diritto come un fuso fino alla porta. A quel punto: dubbio, incertezza. Proprio sul più bello perde tutta la sua sicurezza, si sgonfia come le palle quando uno piscia dopo averla tenuta un bel po’. Il dubbio, in quel preciso istante, diventa un GRANDE DUBBIO, dopo di che il GRANDE DUBBIO diventa un ENORME DUBBIO, come se gli fossero arrivate al cervello tutte le cazzo di cose che gli potevano accadere. Sicché il braccio gli si paralizza sulla maniglia e i diti gli diventano bianchi a forza di star lì fissi come un lampione. Ma non può mica rimanere fermo in quel modo troppo tempo, allora che fa? Abbassa la mano, spinge e entra. Tutto il contrario di quello che credeva: non vede la luce e neanche il buio, ma solo che è invecchiato senza neanche accorgersene, E così ci rimane di merda come quando vai al cinema e vedi il solito film americano che sai già come va a finire dopo dieci minuti. Homo Modernus (silviodulivo)
Uèn he uòs in front of the port, he ebb uàn moment of esitescion, abbastanz that la spint scompost that ebb bringato fin a over dèr him finish sgonfing com the vescic nel pisc prolungeited. La titubans bichéim incertez, il lass dell’indugg se extendet, almost ad abbraccér the big spettr of the conseguens possibols, the bracc fixed himself immobilizer in direccion of the manigl on the la qual pogged the man, the ditas without blùd in the contraccion. The stess ansostenibol of the postur verboten una durebol prolungascion, as sun as micc very little not a long dilescions the bum, and but, viring the pols, sping end accedèt. Not làit, not tenebras faund, as prevedèt, but only la patin of the tàim, with the sarcastic delusion of the spettator of a film with the finish scontated. Homo maccheronicus (silviodulivo)
“Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Giovanni 10,9). Una porta che ha a che fare sicuramente con l'Epifania è quella dell'Anno Giubilare, in realtà essa viene aperta la notte di Natale dell'anno precedente il Giubieo e richiusa nella giornata dell'Epifania di quello successivo.L'ultima mano dolente e contratta che ha toccato quella porta è stata quella di Giovanni Paolo II. Homo Vulgaris (anonimo)
Si diresse alla porta, ebbe un attimo di esitazione, aprì, rimase deluso.
Homo brevis (silviodulivo)
Quando fu davanti, di fronte, di rimpetto all’apertura praticata nel muro di un edificio per permettere l’entrata e l’uscita, più precisamente al serramento applicato a tale apertura, ebbe un attimo, un momento, un istante di esitazione, indecisione, perplessità, indugio, tanto quanto bastava, era sufficiente acché, affinché il moto istintivo che spinge un individuo ad agire in un determinato modo che fino a là lo aveva condotto, portato, guidato si esaurisse, si vuotasse completamente, finisse come sacca o ricettacolo in cui si raccoglie una secrezione nel rimandato, rinviato, ritardato, prolungato mingere, orinare. L’indecisione, irresolutezza, insicurezza divenne condizione di dubbio o di indecisione, fece crescere in volume o superficie il periodo, l’arco di tempo dell’indugio, pausa, attesa, quasi a stringere tra le braccia in segno di affetto o di amore lo spettro, il campo di azione ampio, che ha grande estensione, vasto, delle ipotetiche, possibili, eventuali cose che risultano logicamente da determinate premesse, uno dei due arti superiori del corpo umano restò, rimase teso, tirato, in tensione immobile, fermo, fisso, stabile verso, in direzione dell’elemento facilmente impugnabile, di materiale e di foggia qui non ben definiti, che si applica in questo caso a una porta, per poterla aprire, sollevare o trasportare, in questo caso aprire, sulla quale poggiava, posava, metteva l’estremità dell’arto superiore formata dal palmo, dal dorso e dalle cinque dita, con funzioni prensili e tattili le parti mobili con cui terminano le mani dell’uomo esangui, dissanguate, morenti, nella contrazione, spasmo. L’insopportabilità, intollerabilità, insostenibilità stessa, medesima della postura, posizione,vietava, proibiva una proroga, protrazione, posticipazione durevole, lunga, prolungata quale breve, corto dispositivo specialmente a forma di cordone, combustibile, atto a trasmettere l’accensione a polveri o a ordigni esplosivi non a lungo dilaziona, rimanda, rinvia il rumore forte, improvviso, causato specialmente da un colpo, uno sparo e simili, però, ruotando, girando, virando la regione anatomica dell’arto superiore dell’uomo in cui le ossa della mano si congiungono con quelle dell’avambraccio sottopose la porta a una pressione momentanea o prolungata per spostarla in una determinata direzione, in questo caso in avanti, ed ebbe accesso, entrò, accedé, entrò dentro. Né luce, chiarore, bagliore, né tenebra, oscurità, buio vi invenne, trovò, scoprì, come aveva previsto, pronosticato, preavvertito, ma solo la patina, lo strato superficiale della successione irreversibile degli istanti, dei minuti, delle ore, dei giorni, ecc. con la delusione, disinganno, amarezza ironica, sprezzante, sarcastica dello spettatore, astante, testimone di un film, pellicola, opera cinematografica dal finale scontato, prevedibile, immaginabile. Homo precisus (silviodulivo)
A-pri la po-or-ta, coniglio, a-pri la po-or-ta, a-pri la po-or-ta, coniglio, a-pri la po-or-ta. Homo tifosus (silviodulivo)
GASTRONOMICO-DOLCE Dinnanzi a quella porta dura e scura come cioccolato amaro, mi sentivo come uno strudel di frutta candita, avvolto nella pasta frolla burrosa eppure grondante di fluido sciropposo e miele d’acacia. Addentare o no quella tavoletta? I termini del quesito erano complessi quanto la scelta tra un bignè di crema chantilly e una fedora generosamente ricoperta di panna montata. Il braccio teso come un duro di menta insisteva sulla maniglia di panpepato e mandorle. Rivoli di succo d’amarena mi solcavano la schiena e una rara essenza di vaniglia del Madagascar si diffondeva nell’aria, mista a un vago sentore di cannella di Ceylon. Spinsi la porta, che sfrigolò come una frittella per San Giuseppe. Quel che vidi trasformò le mie gambe di torrone in tenero croccante di pinoli; la testa si fece di zucchero filato.
Florentina - Dulcis in fundo Homo Faber Postilla a “LA PORTA”
L’epifania, dal lat. tardo epiphāna, dal gr. epipháneia ‘(feste) dell’apparizione’, è la manifestazione della divinità in forma visibile; per antonomasia la manifestazione della divinità di Gesù ai Magi nel mito cristiano. La parola ha anche il significato più generico di ‘apparizione, manifestazione’ ed è in questo senso che la usa Joyce per designare dei particolari momenti, nella vita e nella narrazione, nei quali si ha, come per un velo che si squarcia, una percezione profonda ed essenziale della realtà e di ciò che dietro di essa si nasconde. Ho chiamato con il termine epifania, usandolo quindi in modo un po’ diverso da come lo usa Joyce, questo tipo di composizioni che per la loro brevità sono costituite quasi totalmente dal momento della “manifestazione”. Una possibile interpretazione dell’epifania LA PORTA, che in quanto costruita a posteriori e per quanto autorevole ne ammette ogni altra da parte del lettore, è la seguente: La porta preclude l’accesso all’interno, o l’evasione verso l’esterno, o il passaggio fra due locali, comunque sempre prelude ad un movimento spaziale che può essere assunto a metafora di uno qualsiasi dei cambiamenti di maggiore o minore importanza che si presentano nel corso dell’esistenza: un nuovo lavoro, una nuova città, delle nuove amicizie, un nuovo amore. Nel migliore dei casi questi cambiamenti sono intrapresi con grande entusiasmo, benché non sia improbabile che si venga colti durante il processo da un ripensamento, da un senso di timore e di incertezza che il nuovo non manca mai di suscitare. Se il timore è forte può soffocare il processo già sul nascere, o durante il percorso, ma può anche emergere quando ci si è già tanto inoltrati che seppure lo slancio venisse meno non sarebbe più possibile tornare indietro. In fondo molte decisioni non sono il frutto di una scelta razionale, non derivano dal soppesare con cura tutti i pro e i contro, ma sono diventate ineluttabili a seguito di comportamenti anteriori alla decisione stessa. Ecco quindi che si entra nel nuovo. La più grande delusione è scoprire che nuovo non è, che il tempo ha ottuso le sue caratteristiche (o ha forse ottuso le doti percettive di chi lo ravvisa?), tanto che non riluce né è particolarmente oscuro; in definitiva una via di mezzo amorfa fra il bene e il male, non molto differente da ciò che si è lasciato. Eppoi lo si sapeva. Le antiche conoscenze, le frequenti esperienze, cos’altro potevano indurre a prevedere? Resta, ad amara consolazione, l’orgoglio di una preservata lucidità e un certo sarcasmo verso coloro che in circostanze simili si sarebbero aspettati qualcosa di diverso e che forse, per la loro innocenza non scevra di ignoranza, meglio apprezzano quel brutto film che è la vita.

domenica 17 febbraio 2008

Dante

Grazie per essere venuto a cena da noi, l'altra sera, la tua compagnia e' sempre dinamica e mai scontata. Vorrei che tu pubblicassi sul tuo famosissimo blog (dove non dovrebbe esistere la censura) questo mio doveroso ringraziamento con foto allegata, perche' le tue chiacchierate frizzanti e pimpanti ci portano un arricchimento morale e una allegria che raramente troviamo in altre situazioni. In particolare il momento della foto e' stato quando Benigni decantava in tv la Divina Commedia: non hai perso una sillaba, si vede come un letterato assorbe ogni respiro, come una spugna assorbe l'acqua, della poesia. Grrrrande Silvio!
Daniele

venerdì 15 febbraio 2008

San Salvi/ 8

Riassunto delle puntate precedenti. Un precario della Pubblica Amministrazione, condannato a vita a lavorare in un ufficio dell'ex-manicomio di Firenze, sogna di essere uno scrittore e cerca materiale relativo all'ospedale psichiatrico come spunto per il suo primo romanzo, pubblicando i propri appunti per i suoi quattro lettori.

Ancora appunti da D. Lippi, San salvi, Storia di un manicomio.

Nel primo periodo dell'apertura del manicomio le terapie sono basate su farmaci e idroterapia. Nella cura degli alcolisti viene data grande importanza ai bagni tiepidi, in caso di “viva agitazione” vengono prescritti oppio (via orale o iniezione) e morfina. Dopo l’accesso all'ospedale viene somministrata stricnina. La terapia farmacologica è a base di sedativi e cardiotonici, ma anche di iniezioni di insulina. Successivamente anche eroina e morfina. Frequente l'iniezione quotidiana di dosi progressivamente crescenti di insulina per provocare coma ipoglicemico profondo, interrotto con somministrazione di zucchero per via gastrica o di glucosio per via endovenosa.

L’elettroterapia (elettroshock) ha come indicazione elettiva la malinconia. Gli accessi convulsivi si attuano mediante il passaggio, attraverso il cranio, di una corrente elettrica di 100-130 volt, della durata di 2 decimi di secondo. L’apparecchio viene comprato negli anni '40 e più tardi viene acquistato un secondo apparecchio portatile per le cure a domicilio. La psicoterapia inizia negli anni '40, sempre in unione con altri interventi terapeutici. Negli anni '50 la cura dell’ansia prevede lo shock iperpiretico con zolfo endomuscolo o con vaccino in endovena. Le nevrosi continuano ad essere curate tradizionalmente: medicamenti sedativi a cocktail (luminar, bromuro, giusquiamo, passiflora)

Ergoterapia, ovvero cura della malattia con il lavoro (vedi foto). I malati vengono pagati con cibo supplementare o denaro o tabacco. I lavori sono commissionati dall’istituzione o dall’esterno. I lavori prevalenti sono: filatura della canapa, realizzazione materassi, lavorazione della paglia (donne); facchinaggio, muratura, falegnameria (uomini). L’infermiere è il responsabile dell’inserimento nel gruppo di lavoro e osservatore continuo degli atteggiamenti/reazioni/umore del malato. Lavorano i più puliti e tranquilli, in regime di open door e no restraint (senza contenzione del malato).

Nel 1905 venne aperta una “vaccheria” con 28 mucche e un’altra nel 1908. Nel 1911 la produzione di verdure degli ospiti di San salvi soddisfaceva il fabbisogno di San Salvi stesso e di Castel Pulci (l'altro manicomio di Firenze, poi chiuso; vi soggiornò a lungo Dino Campana).

Negli anni '60 si introducono le terapie attive, in particolare pittura e disegno. Il centro di attività espressive La Tinaia nasce ufficialmente nel 1975. L’arte viene praticata liberamente e quotidianamente da un gruppo di pazienti. Le opere riscuotono successo presso i collezionisti, musei e gallerie europee e americane.

San Salvi/ 7

Riassunto delle puntate precedenti. Un precario della Pubblica Amministrazione, condannato a vita a lavorare in un ufficio dell'ex-manicomio di Firenze, sogna di essere uno scrittore e cerca materiale relativo all'ospedale psichiatrico come spunto per il suo primo romanzo, pubblicando i propri appunti per i suoi quattro lettori.

Ancora appunti da D. Lippi, San Salvi Storia di un manicomio. (Mi sembra il testo più completo, sono riuscito a "scipparlo" per una settimana ad alcune persone del quartiere che stanno facendo una ricerca sul manicomio; ne approfitto per riportare gli appunti presi)

L’archivistica manicomiale è stata spesso trascurata. Le fonti sono estremamente lacunose sia per i danni provocati dall’alluvione e dal passare del tempo sia, spesso, per l’incuria degli uomini. La parte disponibile per la consultazione (il libro è stato pubblicato nel 1996) consiste quasi esclusivamente nelle cartelle cliniche e nei registri di movimento dei malati in cui sono annotati gli esistenti al 1° gennaio di ogni anno, gli ammessi, i dimessi, i morti, divisi per sesso. Anche i dati dei registri sono in realtà incompleti e discontinui.

Sembra che le pratiche amministrative siano molto più di quelle sanitarie. Ci sono:

- 119 filze contenenti le cartelle cliniche dal 1867 al 1900 (quindi anche prima della creazione del Manicomio)

- Nulla dal 1900 al 1911

- 200 filze di cartelle cliniche periodo 1912-1935

- 355 filze del periodo '35-'62

- 134 filze del periodo '63-'71

- 71 filze del periodo '72-'78

- 88 registri di ammissione e dimissione 1850/1978

Vi è un doppio schedario di cartelle cliniche. Uno schedario alfabetico nominativo dei ricoverati (circa 10000 dal '15 al '61). Le situazioni archivistiche relative ai malati sono compromesse. Dal 1912 al 1960 il fascicolo individuale contiene i decreti del Tribunale, il certificato del medico, la modula informativa con le notizie personali e storiche e la cartella con le note segnalate nel Reparto di Osservazione, insieme al Diario Clinico.

Durante la Prima Guerra Mondiale la Clinica (situata in San Salvi ma separata dal manicomio) funzionò come reparto di Osservazione per i militari. Questo rende difficile alcuni confronti statistici perché spesso non si riesce a distinguere le due attività (cura e ricerca, ricoverati e sotto osservazione/in cura)

Qualche numero sui ricoveri :

  • Percentuale minima nel 1896, 384 ricoveri, 0.56% rispetto alla popolazione provinciale
  • Percentuale massima nel 1965, 1498 ricoveri, 1.39% rispetto alla popolazione provinciale

Molti sono i pazienti che entravano e uscivano più volte nello stesso anno. Dimissioni: 40% rispetto agli ingressi. Non sono riuscito a trovare nessun numero sui presenti in un dato momento.

Per quanto riguarda la documentazione fotografica la più interessante è quella dei Fratelli Alinari all’inizio del secolo. Poi la quantità di foto diminuisce drasticamente. La foto pubblicata è tratta dall'archivio Alinari.

San Salvi/ 6

Riassunto delle puntate precedenti. Un precario della Pubblica Amministrazione, condannato a vita a lavorare in un ufficio dell'ex-manicomio di Firenze, sogna di essere uno scrittore e cerca materiale relativo all'ospedale psichiatrico come spunto per il suo primo romanzo, pubblicando i propri appunti per i suoi quattro lettori.

Appunti da D. Lippi, San Salvi, Storia di un manicomio.

Nell’archivio di San Salvi e nell'Archivio Storico della Provincia non ci sono né l’intero progetto della costruzione del manicomio né il piano dei lavori.

Villa Fabbri, l'unico edificio preesistente (splendido), prende il nome dal commendator Egisto Paolo Fabbri, acquirente dei locali Bonifazio (l’ex manicomio, ora questura). Al momento dell’acquisto era adibito a uso rurale. E' il Palazzo del Guarlone.

Il manicomio viene progettato da Roster sotto le direttive di un medico, Tamburini, che fu sempre impegnato nella discussione legata alla struttura dello spazio manicomiale nella sua funzione terapeutica. Il malato doveva essere inserito in una struttura artificiale, organizzata su principi scientifici che rispondessero a certe concezioni terapeutiche. Ogni elemento al suo interno doveva corrispondere a queste finalità e non poteva essere lasciato al caso. Assumevano valore terapeutico sia l’arredamento sia la struttura edilizia, sia l’organizzazione degli spazi e la distribuzione delle attività in una visione che sembra voler contrapporre alla malattia mentale, intesa come “disordine delle passioni”, l’ordine ed il rigore. Il manicomio si poneva in una prospettiva duplice proponendosi da una parte come strumento di cura, dall’altra come mezzo di difesa e tutela della società.

La pianta riprodotta sopra è quella del1891, anno dell'inaugurazione.

In quel periodo aveva riscosso grande successo l’Ospedale San Lazzaro di Reggio Emilia, costruito con la struttura a villaggio, che permetteva di lasciare ai degenti un minimo di libertà, riproducendo nel microcosmo del manicomio la realtà esterna. Scarso seguito ebbero invece le tecniche terapeutiche dell’open door e del no-restraint che Tamburini aveva sperimentato (ne palerò in seguito).

Furono costruiti: 2 padiglioni per i Tranquilli, 2 per i Semitranquilli, 2 per i Sudici ed Epilettici, 1 per gli Agitati e i Furiosi, 1 per gli Infermi e i Paralitici (dove lavoro io). Ogni padiglione era circondato da piazzali e passeggi; una rete di gallerie e logge collegava i padiglioni. Al di sopra, una serie di terrazze correva sopra le gallerie. Le gallerie sotterranee praticabili, collegate tra loro, fungevano da contenitori per le diramazioni dei condotti del vapore e dell’acqua potabile.

Già 14 anni dopo la costruzione, però, l’ospedale di concezione modernissima non riusciva ad affrontare le difficoltà di sovraffollamento, restauri, provvedimenti amministrativi.

Nel 1924 lo stabilimento di San Salvi prende il nome di Ospedale Psichiatrico Vincenzo Chiarugi. Vengono eseguiti lavori di ampliamento (il nuovo padiglione per alienati tubercolotici e il cinema). Il Reparto Minori, del '42, che fino ad allora non aveva usufruito di personale specializzato, ebbe l’appoggio di una maestra ortofrenica. Viene riaperta la Scuola professionale per gli infermieri. Nel 1958 sorge il laboratori di EEG (elettroencelografia). Nel '54 viene costruito il Padiglione Medico Pedagogico.

Sotto altre due piantine: una degli anni '60, l'altra del '95