mercoledì 3 ottobre 2007

Racconto - Una madre, un bambino

Una madre, un bambino

Piango da quando sono qui, sarà per questo, avrò detto qualcosa di sbagliato, una delle tante cose che tutti sanno e io no, ho parlato senza conoscere quello che tutti conoscono, come fai a non saperlo, sei proprio piccolo, perché tutti sembrano sapere tutto e a me non dicono niente, o forse hanno scoperto qualcosa che ho fatto, forse la pipì addosso, erano poche gocce, le devono aver viste, qualcosa è passato sopra i pantaloni, ma no, è perché ho pianto, perché piango sempre, perché non voglio star qui, voglio tornare a casa, mio fratello mi ha lasciato solo davanti a questo portone, non arrivo alla maniglia per aprire, sono troppo piccolo, che cosa posso fare, provo a passare di dietro, attraverso il grande giardino, dove giochiamo o piangiamo o facciamo a botte, non c’è nessuno, è vuoto, mi hanno abbandonato nel vuoto, senza calore, senza abbracci, senza un corpo che mi accolga e mi contenga e plachi la mia paura di restare solo, torno al portone di ingresso, salgo tutti gli scalini alti alti, mi siedo, piango, che mi succederà, tornerà la mamma, la suora ha sentito, mi ha aperto, finalmente sono entrato nel posto che più odio, un rifugio temporaneo, un sollievo momentaneo, ma tutti hanno udito, tutti hanno visto, piango ogni giorno, ogni giorno mi portano qui e qui mi abbandonano, io non voglio, e queste bambine, ora ho capito, mi prendono in giro perché piango, perché sono piccolo, tutte intorno a me, saranno dieci, un milione, mille, tutte col dito puntato, tutte che ridono, in cerchio attorno a me, ho il muro alle spalle, non posso fuggire, non potrò mai fuggire, anche da grande, mi irrideranno scherniranno sbeffeggeranno, non potrò avvicinarle, non potrò mai toccarle, chieder loro nulla, per anni e anni e anni non parlerò con loro, non chiederò neanche una penna in prestito, una domanda qualsiasi, una frase come dico tutti i giorni, semplice semplice, anche se sarò innamorato di loro, anche se passerò tutto il giorno con lei, che mi piace tanto, mattina e pomeriggio, anni e anni e non dirle mai niente, non ho la forza neanche di piangere, eppure tutto il giorno non ho fatto altro, ora centomila bambine mi si stringono intorno in cerchio, un cerchio che non posso oltrepassare, quando finirà questa persecuzione, quando verrà la suora a spezzare il cerchio, forse le ha mandate lei, sono tutte contro di me perché lo ha voluto lei, non finirà mai, anche da grande sarà così, non mi state addosso, andate via andate via andate via, mi fate paura, che vi ho fatto di male, che mi succederà, sarà sempre così, il dito puntato contro, l’indice che si muove, il sorriso cattivo, io rosso, non potrò mai possederle, io le voglio ma loro si prendono gioco di me, voglio una madre che mi prenda, che non mi abbandoni ogni giorno per non tornare mai più, dopo ore e ore e ore passate dentro questo cerchio, alla fine qualcosa è successo, non posso ricordare che cosa, sarebbe troppo doloroso, però mi hanno liberato, dopo un infinito tempo di abbandono, qualcuno mi ha riportato a riva, è sera, la tavola è ancora apparecchiata, siamo tutti sazi, mi stendo sopra il corpo di mia madre per prendere tutto il calore del suo ventre e del suo seno, sognando di poter restare così per tutta la sera e tutta la notte e tutto il giorno e tutta la sera e tutta la notte e tutto il giorno.

Cerco mia madre nella carne dura di un donnone dall’età sconosciuta, dai modi burberi, sorda a tutte le mie parole, a ogni mio sguardo, guardami, non vedi, sono stato abbandonato in un mondo troppo vuoto per me, non mi basta un corpo da penetrare, ho bisogno di uno sguardo tenero, di una mano grande che lisci i miei capelli bambini, di un posto morbido dove poggiare la mia testa distrutta dai pensieri del giorno, la mia mente bisognosa di riposo dalla fatica quotidiana del vivere la paura. Le pareti della sua stanza sono grigie, i suoni della sua bocca sono volgari, il suo sorriso è giallo. Fuggo via. Cerco mia madre in una donna dagli occhi lucidi, il sorriso all’insù, il portamento eretto, le parole gentili, i discorsi garbati, i principi buoni, i modi corretti, le chiedo in forma ufficiale, lettera, dichiarazione, firma, busta, indirizzo, timbro, cassetta, le chiedo di farmi dimenticare e ricordare l’abbraccio di mia madre e il calore del suo corpo, le chiedo di sostituirsi a lei, le lascio sulla carta anche le gocce di lacrime uscite dei miei occhi perché capisca meglio la forza del mio desiderio, al mattino la vedo inginocchiarsi e abbassare lo sguardo, il viso verso terra in segno di sottomissione, la fronte corrugata a mostrare l’intensità del suo sentimento, la vedo così in ginocchio di fronte alla croce di Cristo, alla sera la vedo inginocchiarsi e abbassare lo sguardo sul mio pene in cerca di liberazione dalla paura di restare solo, mi sfinisco a chiedermi perché tante anime in uno stesso corpo, chi è questa donna che ora, chiusi in un appartamento silenzioso di una città silenziosa, non vuole più darmi il piacere della carne, io chiedo solo questo, non voglio né tenerezza né pace né promesse né amore, voglio solo un pezzo di corpo con il quale ottenere piacere fisico, siamo fatti di corpo, solo di corpo, ora dunque fermati e lasciami soddisfare il mio appetito, non urlare, potrebbero sentirci, è troppo tardi per dire no. Cerco mia madre nel seno florido di una ragazza di cui non capisco la lingua, e mi chiedo quanti milioni di parole devo ascoltare, senza che neanche una riesca a colmare il vuoto di quel giardino, e neanche due occhi nei miei occhi per dirmi: vieni, ecco, puoi stenderti su di me, so di che cosa hai bisogno, lei che non può parlarmi l’ha capito, forse perché non potendolo fare con la voce mi ha parlato con gli occhi e con il corpo, gli unici che possono davvero dirmi qualcosa, la bocca no, quella non può farlo, per una notte mi accoglie senza una parola sopra il suo ventre e il suo seno e la sua carne sempre abbondante come tutte le carni che emanano calore. Ma è solo una notte. Cerco mia madre in una donna che ha bisogno di un figlio e mi tira dentro il suo corpo gelido e mi tiene stretto per non farmi fuggire e vuole che io la tenga stretta stretta, non vuole sesso, per carità, dice lei, troppa la sua età, poca la mia, dice lei, potrei essere tua madre, dice lei, che cosa dice, che cosa vuole, mi chiedo io, si parla per parlare a se stessi o agli altri, e me lo chiede a gran voce, questo abbraccio, davanti a tutti, non sa che non si può chiedere un abbraccio, si può solo aspettare che ce lo diano, e anch’io non lo sapevo questo, chiedevo chiedevo chiedevo, mi prostravo ai piedi delle donne in cerca del loro abbraccio, solo quando ho smesso di chiedere ho potuto ricevere, lei invece continua a chiedere perché non ha ancora trovato suo figlio, lo cerca in me e io in lei cerco mia madre, ma non può continuare, l’abbraccio di una madre a suo figlio è per sempre, prima o poi questo abbraccio, con questa donna, si dissolverà, diventerà solo ricordo vuoto. Cerco mia madre in una donna che mi prende e mi lascia, mi prende e mi lascia, mi stringe forte e non vuole esser stretta, una donna dal corpo scisso a metà che cerca le mie parti intime, le sfiora e le fugge, mi teme, teme le mie mani quanto la mia mente, ha paura che la denudi della sua corazza di certezze e razionalità, forse non sa se mi vuole, certo non capisce se la voglio, ma io, io chi è che non voglio, sempre in cerca di quel corpo e di quel calore, ogni donna è occasione buona per aiutarmi a ricordare, posso prendere ogni corpo e usarlo per il mio gioco di bambino, posso lasciarlo senza accorgermi di averlo fatto. Cerco mia madre anche in una piccola figura di donna che mi ascolta ogni giorno diluviare le parole come non ho mai fatto da quando sono nato, credendo così anch’io di poter soffocare il desiderio parlando parlando parlando, senza mai chiedere quello di cui ho bisogno, ogni giorno a dire: lo farò domani, ogni giorno a pensare: in futuro verrà il momento buono, ogni momento a credere che quello dopo sarà migliore, così la tengo per le gambe o per le spalle o per i fianchi o per qualsiasi altra parte del corpo come se fosse mia, ma nonostante tutte queste parole e questa intimità non smetto mai di parlare, non prendo mai le distanze per dire: ecco, siamo qui, io e te, uniamoci, perché, è vero, bisogna prendere le distanze per saltare negli altri, e io continuo a rimandare il momento della rincorsa, e quello del salto, e mica solo con lei, no, mica solo con lei, con un’infinità di donne, forse per paura che il salto sia vano o doloroso o senza senso, così le sto addosso come se le fossi già dentro, ma addosso è diverso da dentro, ed è andata a finire che vicino vicino è diventato lontano, ora lei non c’è più, l’ho rivista solo stasera in una signora che aveva una qualche parvenza di lei, forse le narici larghe, le guance gonfie, la gambe carnose. Cerco mia madre chiuso in migliaia di pagine di carta, la cerco in posti lontani centinaia di chilometri, in persone che non sanno chi sono, che non dicono mamma per chiamare la propria madre, la cerco il più lontano possibile, perché vicino vuol dire sofferenza, dolore, sconforto, fuggo dal passato, voglio lasciarlo a terra quando mi alzo in volo per sognare, ma il passato mi segue anche lì, non riesco a farlo sfracellare scaricandolo dall’alto, quando si sogna la realtà dovrebbe sospendersi e invece no, anche lì suore, bambine, pianti. Fino a che, stanco di peregrinare in cerca di, stanco di lottare per, stanco stanco stanco, mi fermo, e tutto quello che si avvicina lo allontano per non illudermi e poi esser deluso. Una donna alta e bella e formosa e interessante e, mi si avvicina e mi dice, e mi chiede, e mi propone, e si propone, e io, e io, e io lì a pensare, la bocca ferma, gli occhi fermi, le mani ferme, perché tutta questa fatica immensa, perché ogni volta ricominciare, perché provare ancora, non servirà a niente, non voglio il tuo grande seno, le tue labbra carnose, le tue gambe perfette, voglio chiudermi nella camera di quando ero bambino, stendere i muscoli flaccidi, dormire senza sosta alla ricerca del nulla. Ma il nulla, neanche quello mi viene incontro, dunque mi alzo sonnambulando in un mondo di svegli, e ora non ricordo più che cosa stavo cercando, non ricordo perché mi sono alzato, so solo che devo mangiare, bere, dormire, respirare, null’altro, niente più di quello che mi faccia sopravvivere, ora non penso più, mangio, bevo, dormo, respiro, non ho tempo di farmi domande né penso a quando me le facevo, non ansimo alla ricerca di quello che ormai ho dimenticato. Mi sono illuso di trovare mia madre in tutte le donne con le quali ho parlato, ho camminato a fianco, ho condiviso la mia nudità, o anche solo immaginato di farlo, ma ho dovuto vagare nel tempo e nello spazio, vagare vagare vagare, per poterlo trovare in un’altra donna, per colmare il vuoto di un giardino senza madre, ho dovuto salire centinaia di scale altissime, sedermi a piangere per ore e ore e ore, farmi aprire decine di porte da donne senza un ventre caldo, ho dovuto odiare questa donna per essermi sfuggita per un tempo senza fine, perché ha tentato di fuggire dal mio abbraccio irrespirabile, ho dovuto penetrare pareti e pareti e pareti con il mio urlo poderoso, sbattere oggetti con la violenza dei pazzi, deturpare il mio volto con le rughe della sofferenza, i miei capelli con il colore della vecchiaia, sconquassare tutti gli affetti di me bambino pur di ritrovarlo, pur di riempire il vuoto di un abbraccio caldo di una madre e di suo figlio.

10 commenti:

Anonimo ha detto...

Di questo racconto ti ho già detto cosa penso...
Ma te lo ridico...
é bellissimo, dico davvero...
Adoro il tuo modo di scrivere!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Arrivi in fondo alle cose senza problemi...
T.V.TR.B!!!!!!
Assia the best 4e!!!!!!!!!11

asaps ha detto...

ma che l'hai scritto davvero te?
scopro due cose:
1) sei veramente bravo;
2) a lavorare non hai un cxxxo da fare...
Complimenti comunque!

silviodulivo ha detto...

L'ho scritto a casa, non a lavorare!
Silvio

Anonimo ha detto...

Ciao, Silvio.
In questo mio lunedì glacialmente "burocratico",finalmente un brivido interiore! Bellissimo racconto! Saluti da Ketty

Unknown ha detto...

Via, mi toccherà leggerlo anche a me..

Anonimo ha detto...

Chiamami Ismaele...

che dire,,, qui a Nantucket durante le pause della caccia non abbiamo molto da fare. Forse anche per questo il tuo racconto mi è piaciuto tantissimo. Maniglie troppo alte, corpi che si abbracciano, calore, calore, ancora calore, non ne ho mai abbastanza.

silviodulivo ha detto...

Moby Dick... il figlio di Abramo e della sua schiava... non hai molto da fare... non ne hai mai abbastanza... mmh, non capisco granché
Silvio

Unknown ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Unknown ha detto...

Silvio.
Sublime, e sai cosa intendo...
(era meglio la crema pasticcera con le lingue di gatto)

silviodulivo ha detto...

Eh, ma insomma! Se hai qualcosa da dire dilla! Non ti preoccupare, non mi offenderò, critica critica critica. Criticatemi. Dimmi, ditemi che cos'è che non va, dimmi tutto quel che ti viene in mente.