lunedì 26 maggio 2008

La poltroncina del trans - seconda parte (anonimo)

La mia bicicletta era vecchia e quando aveva bisogno di una riparazione, la portavo in una officina a due passi da casa anche se il meccanico era scorbutico e mi sembrava di dargli fastidio. Se la gomma era bucata, scuoteva il capo, sbuffava, diceva che i freni non funzionavano, il sellino era da cambiare, la catena stava per rompersi, insomma trovava sempre un pretesto per farmi spendere qualcosa in più. L’uomo sembrava una gruccia dentro una tuta blu sformata, era alto e magro, il naso un po’ adunco, avrà avuto quaranta anni e portava un parrucchino così parrucchino che pareva un copricapo di carnevale. L’officina era piena di biciclette da riparare, alcune sistemate e rimesse a nuovo esponevano sul manubrio il cartello “vendesi” e lui me ne offriva una ogni volta che gli portavo la mia. Il meccanico aveva un tic, ogni tanto stringeva gli occhi e li riapriva, come qualcuno che si sveglia da un brutto sogno. Quando uscivo dovevo passare per forza davanti all’officina dove il solito gruppetto di sfaccendati sbraitava su calci d’angolo e rigori, biciclette e giri d’Italia, maglie rosa e maglie gialle. Al mio passaggio il volume delle voci si abbassava e le parole sembravano avere solo la coda o l’ inizio, un “che cu”, un “ona” o un “ciu” o un “ti fa”, un “lo”. Accanto all’officina, che non aveva nemmeno un’insegna, c’era una porta sgangherata aperta su un androne dove si intravedevano biciclette appoggiate al muro e qualche vaso di piante rinsecchite. Sui campanelli, qualche nome italiano inciso nell’ottone e nomi stranieri scritti a penna su striscioline di carta attaccate con nastro adesivo. Sul davanzale di una finestra a pianterreno, un gatto rosso stava spesso dietro le sbarre. Se l’officina era chiusa e non c’era il solito capannello, mi fermavo a giocare con il gatto che infilava il muso fra i riccioli di ferro battuto e allungava le zampe sfoderando le unghie. Alle finestre dei piani superiori, i panni stesi sventolavano in barba a un’ordinanza comunale che prescriveva di non ingombrare le facciate del centro storico. La notte, nel vano del portone aperto, vedevo spesso un uomo in piedi, alto, vestito da donna, il viso smunto, il naso adunco, le labbra sottili dipinte, una rosa rossa fra i capelli neri e lunghi, le scarpe con il tacco. Stava immobile guardando dritto, sembrava che niente lo potesse distrarre dal suo essere li ad aspettare. La prima volta che lo avevo visto, stavo camminando imbacuccata in un cappuccio perché tirava vento, guardavo in basso e improvvisamente me lo ero trovato sulla destra quasi a sfiorarlo. Avevo sobbalzato e mi era sfuggito un - Oh! Mi scusi - e lui era rimasto immobile, strizzandomi un occhio e accennando un sorriso. Ero passata oltre un po’ sorpresa da quel gesto ammiccante e, arrivata al mio portone, cercando la chiave, mi ero voltata verso di lui per accertarmi che esistesse davvero. Al mercato, la mattina, incontravo spesso uomini con la bocca e il naso “rifatti”, la pelle del viso tirata sotto lo strato di fondotinta rosa, le scarpe basse, i capelli raccolti in un codino, cicalavano con i fruttivendoli, gesticolavano, strattonavano il cagnolino al guinzaglio, camminavano ondeggiando e lanciando occhiate a destra e a sinistra. La notte, passando in bicicletta sui viali, cercavo di riconoscere qualcuno di loro nelle creature alte e bionde che in minigonna rossa e tacchi altissimi facevano segni agli automobilisti indecisi. Con il buio sembravano donne truccate troppo, vestite di paillettes ad una festa senza invitati.

2 commenti:

Stranistranieri ha detto...

Ma non c'è nemmeno un omicidio!

Anonimo ha detto...

Ma è finito?