sabato 24 maggio 2008

La poltroncina del trans (prima parte) - Anonimo

Mio padre non era contento che io abitassi in una casa con tanti studenti. Fossimo state tutte ragazze, probabilmente non avrebbe avuto niente da ridire, ma quando mi telefonava e rispondeva Giulio, sembrava che la prendesse come un’offesa personale. In effetti eravamo un po’ in troppi in quell’appartamento. Emma ufficialmente aveva una camera singola, in realtà ci dormiva anche Francesco, il suo ragazzo. Poi c’erano Giuditta e Carmen, dormivano nella stessa camera, forse anche nello stesso letto, tornavano a casa dei rispettivi genitori il fine settimana con le borse piene di panni sporchi e ritornavano il lunedì mattina belle fresche e profumate, cariche di sughi e torte salate per tutta la settimana. Poi c’era Giulio, l’unico maschio, quello che rimaneva a casa il fine settimana perché la sua famiglia abitava in Sardegna, dormiva in una specie di sgabuzzino che prendeva luce dal salotto e non era quel tipo di ragazzo che correva dietro alle donne. E poi c’ero io, che dormivo in salotto e dovevo svegliarmi presto la mattina perché gli altri passavano per andare in cucina a fare colazione. Avevo spiegato a mio padre che, in quanto a Giulio, poteva stare tranquillo, ma era successo il finimondo perché secondo lui erano proprio “quei tipi lì” che facevano circolare gli uomini per casa. Quando avevo trovato questa sistemazione, mi era sembrata vantaggiosa per due motivi: primo pagavo poco, secondo, sarei stata costretta ad alzarmi presto e quindi studiare o andare all’università. In realtà nelle case dove circolano tanti studenti, spesso la voglia di studiare va via. Nel mio caso la voglia di studiare non c’era mai stata. Mio padre aveva tanto insistito perché io mi iscrivessi a Farmacia, sarei subentrata a lui nella sua attività una volta laureata e tutto sarebbe rimasto in famiglia. Io non riuscivo ad appassionarmi alla materia, per preparare un esame ci mettevo tanto tempo, ero iscritta al terzo anno e dovevo ancora dare esami del primo. Era anche difficile raccontare bugie a mio padre perché conosceva benissimo i meccanismi della facoltà, aveva buone relazioni con molti professori e controllava periodicamente il mio libretto. Perché non mi ribellavo? Non lo so. Ciondolavo tutto il giorno in cerca di ispirazione, mi appassionavo ad ascoltare le storie d’amore degli altri, trovavo un gusto incredibile a leggere articoli di cronaca nera, andavo spesso a mangiare alla mensa, gironzolavo fra gallerie d’arte e mostre fotografiche, bivaccavo nel giardino della Facoltà e tutto finiva lì. La mia famiglia abitava in un piccolo paese a cento chilometri di distanza e sarebbe stato impensabile per me stare con loro e prendere il treno la mattina per andare all’università. Mio padre almeno una volta al mese, veniva in città per sbrigare i suoi affari, di solito mi telefonava e ci vedevamo in centro per un caffè e per fare due chiacchiere. Sempre le stesse e sempre sullo stesso argomento: i miei esami. Non amava venire a casa perché – diceva – gli veniva il nervoso a vedere tutta quella gente. Poi un giorno arrivò, senza preannunciarsi, stavamo festeggiando un bel trenta e lode di Giulio, il pranzo si era dilungato al tardo pomeriggio con alcool, musica, qualche canna, un po’ di gente buttata sui letti. Una settimana dopo salutai quella casa, quel quartiere e i miei amici. Mi trasferii con tutte le mie carabattole in un monolocale che un conoscente di mio padre aveva appena comprato ad un’asta e glielo aveva affittato a un prezzo di favore. Mio padre era fatto così, si preoccupava delle apparenze, delle lauree messe in cornice, della rispettabilità della famiglia di questo e di quello, ma non voleva mai spendere troppi soldi. Gli sembrò una gran fortuna prendere in affitto il monolocale e quando venne ad aiutarmi per il trasloco, non si accorse nemmeno in che razza di quartiere mi stava infilando. Inveiva solo contro il sindaco e i centri storici chiusi al traffico e senza parcheggi. Il monolocale si trovava al primo piano di una palazzina scalcinata del centro storico, il portone era l’ultimo di una strada tozza e buia a sfondo chiuso.

5 commenti:

Stranistranieri ha detto...

Bella foto, complimenti. Il tuo anonimo sembra sempre ispirato dalle case per studenti infilate in quartieri poco raccomandabili.
Vediamo che succede questa volta.

Anonimo ha detto...

Mica un omicidio, eh?

Anonimo ha detto...

Florentina

silviodulivo ha detto...

E chi lo sa? pazienza...

Anonimo ha detto...

Un omicidio? C'è stato un'omicidio...?