mercoledì 28 maggio 2008

La poltroncina del trans - terza e ultima parte (anonimo)

Nessuno avrebbe scambiato per una donna l’uomo del portone. Nemmeno per una donna brutta. Era un uomo mascherato, uno scherzo serio, tragico, immobile che aspettava. Durante il giorno, nel quartiere, non avevo mai incontrato nessuno che potesse assomigliare a lui. La notte mi affacciavo alla finestra e mi sporgevo un po’ per intravedere i contorni mossi delle stoffe illuminate dalla luce dell’androne, guardavo il silenzio della strada deserta dove entrava solo chi stava tornando casa o chi cercava un riparo per pisciare. Una sera, accanto alla porta dell’officina, l’uomo stava seduto su una sedia bassa completamente ricoperta dalla gonna lunga, con le gambe accavallate stringeva in grembo una borsetta e aveva in mano una sigaretta accesa. La sedia occupava quasi tutta la larghezza del marciapiede, io gli passai davanti spostandomi nella strada, lo guardai con la coda dell’occhio e mi sembrò che la bocca fosse più distesa. La mattina dopo, nel portone aperto, intravidi accanto alle biciclette, una poltroncina bassa e rossa. Entrai, facevo finta di aggiustarmi le calze e intanto guardavo da vicino la poltroncina. Aveva la seduta ovale allungata su zampe sottili di ferro tenute fra loro da ferri incrociati. Lo schienale ovale era sorretto da due ferri saldati alla base e uniti dal solito incrocio, il rivestimento era in finta pelle. Sembrava un trono a cui erano state segate le gambe. Avevo visto due poltrone simili in un negozio che vendeva mobili e oggetti anni sessanta, due gemelline rosse molto costose, sotto ad una abat-jour da terra con cappello plissettato. Uno sfizio caro che non potevo permettermi. Lui aveva lasciato la poltroncina nell’ingresso, sicuro che non l’avrebbe presa nessuno. E cominciai a pensare a come fare per portarla via. Mi dispiaceva che lui passasse le sue serate in piedi, ma avrei potuto sostituire la sedia o offrirgli dei soldi, o magari chiedergliela e aspettare la risposta. Spesso però le persone si attaccano alle cose proprio quando gli altri gliele chiedono. Non volevo portarla via di giorno, qualcuno sicuramente mi avrebbe visto. Per alcune settimane, la notte passai davanti a lui seduto nella stessa posizione con la gonna che scendeva a ricoprire la sedia. Sempre immobile fumava, la stessa rosa tra i capelli, dondolava un piede e buttava fuori il fumo facendo gli anelli. Un giovedì mattina alle quattro, stavo tornando a casa dopo una festa, lui non era davanti al portone, sbirciai nell’androne e intravidi la sagoma della poltroncina. Non passava nessuno, tutte le finestre sulla strada erano buie, guardai a destra e a sinistra e vidi, vicino al cassonetto della spazzatura in fondo alla strada, una sedia. Andai a prenderla. Sembrava stabile sulle zampe di metallo cromato, mi sedetti sulla base di formica, mi appoggiai allo schienale e mi sembrò veramente comoda. Era un po’ meno elegante della poltroncina, ma poteva andare. La sollevai facilmente, cercai in borsa un fazzoletto di carta, la spolverai e andai verso il portone. Entrai, appoggiai la sedia accanto a una pianta secca e uscii con la poltroncina. Mi avviai veloce verso la mia porta, cercai la chiave, aprii e cominciai a salire le scale facendo attenzione a non sbattere nel muro. Entrai e subito in bagno la infilai nella doccia, misi un po’ di bagnoschiuma su una spugna e la insaponai. Poi la risciacquai, la asciugai e la misi in camera mia vicino al letto al posto di un orrendo comodino. La mattina dopo quando scesi per prendere la bicicletta, mi accorsi che aveva una gomma bucata. Con le mani sul manubrio, a piedi, andai dal meccanico e lui non rispose al mio buongiorno, continuò a sbuffare con la faccia vicina ai pedali di una bicicletta che pendeva dal soffitto mentre armeggiava intorno alla catena. - Fino a domani non posso metterci le mani – mi disse e io rimasi un attimo soprappensiero, con la bicicletta in mano, incerta se lasciarla o cercare subito un’altra officina. Lui con la pinza a mezz’aria mi guardò, strizzò gli occhi, li sbatté un paio di volte e mi disse di mettere la bicicletta in fondo al negozio. E fu un attimo. Incrociai quello sguardo, mi sembrò che il parrucchino fosse leggermente storto, guardai il naso adunco, la bocca tirata e vidi la faccia notturna del travestito. Era il luogo che mi suggestionava? Decisi di lasciare la bicicletta e chiesi per favore di ripararla al più presto - Se ho detto domattina, è domattina –rispose– alle undici. Uscii cercando di visualizzare insieme la faccia del meccanico e quella del travestito. Impossibile che fossero la stessa persona. Quando tornai a casa alle una, sul pianerottolo incontrai la signora anziana che abitava a pianterreno. - Conosce gli inquilini del palazzo più avanti, quello con il gatto rosso alla finestra? – domandai. - E chi li conosce quelli, vanno e vengono, cambiano di continuo, c’è un via vai di neri, di gialli, di donne, di uomini, di metà e metà. - Ma lei sa se in un appartamento abita il meccanico di biciclette? - E chi lo sa? Lo chieda a quelli del gatto, stanno lì da tanti anni e anche loro hanno la loro croce. A chi si riferiva con “anche”? A se stessa? A me? Al mondo? Mi sembrava che volesse raccontare qualcosa ed io ero curiosa. - Che croce scusi? - Sarebbe lunga, ho la pentola sul fuoco, magari un’altra volta. Provi a suonare il campanello e se rispondono - perché non sempre rispondono - gli chieda del meccanico. La ringraziai ed entrai in casa. La poltroncina vicino al letto non mi piaceva. Decisi di metterla in mezzo alla stanza, davanti alla televisione. La seduta ovale con gli estremi un po’ rialzati, chiedeva a chi la guardava di accomodarsi e lo schienale, con la stessa forma, accoglieva le spalle come uno scialle premuroso. Sembrava formata da due tavole da surf rosse arrotondate e incavate, montate su un intreccio di ferri neri. La sera rimasi a casa, invitai Carmen e Giuditta a cena e tutte e due si sedettero sulla poltroncina, dissero che era comoda ma strana, che sembrava più un oggetto da guardare che da usare, che una vecchia zia di una delle due, ne aveva buttata proprio una uguale, che occupava un po’ troppo spazio nel monolocale già pieno di tutto. Pensai al loro appartamento in affitto, zeppo di mobili scuri e pesanti lasciati dalla proprietaria, ai centrini che dovevano rimanere al loro posto, ai fiori finti polverosi che nessuno doveva spostare. A mezzanotte mi affacciai alla finestra e intravidi lo svolazzo della gonna lungo lo stipite del portone. Lui era là, in piedi e aspettava. Mi sentii in colpa, sarei voluta scendere con la poltroncina, avrei voluto offrirgliela come un dono, come se non gli fosse mai appartenuta. Rimasi invece incollata alla finestra per molto tempo, osservando i suoi impercettibili cambiamenti di posizione, la borsetta che sporgeva, il puntino di fuoco della sigaretta. Forse la sedia non era stata di suo gradimento. Poi un uomo si fermò davanti a lui, mi sembrò di sentire un rumore di parole, vidi la fiammella di un accendino e sparirono all’interno. La mattina andai presto all’università e alle undici non ritirai la bicicletta. Avevo fatto un piano per sapere dove abitasse il meccanico. Passai davanti all’officina alle una, la saracinesca era abbassata, davanti al negozio non c’era nessuno. Il gatto rosso non era sul davanzale e la finestra era socchiusa. Entrai nell’androne e seguii l’odore di cavolo bollito fino alla porta dell’appartamento a pianterreno. Suonai. Una sedia venne trascinata sul pavimento, qualcosa di metallico cadde, una voce rauca di uomo gridò – Apri! Una voce di donna chiese - Chi è?- La porta rimase chiusa. - Non mi conosce signora, abito appena due portoni più avanti, sto al sette – risposi. - E cosa vuoi? – la voce sembrava stanca. - Se mi apre glielo dico, le giuro che non vendo nulla. La donna aprì e mi apparve un viso flaccido con due occhi rotondi ipertiroidei sotto un ciuffo di capelli grigi spettinati. Fumava. – Mi scusi, sa qual è il cognome del meccanico sul campanello, dovrei ritirare subito la bicicletta, il negozio è chiuso, scusi il disturbo ma… - Qui non ci sono meccanici, quello delle biciclette non sta qui. - E in questa zona viene solo per lavorare? - Ma che cazzo di domande mi fai? Cosa ne so io del meccanico! E mi sbatté la porta in faccia. Ecco ora sapevo. Il travestito che sostava gran parte della notte sul marciapiede non era il meccanico che di giorno riparava le biciclette. Entrai in casa turbata. Avevo davvero creduto che il meccanico si travestisse di notte e “battesse” tranquillamente sulla porta di casa? E abitando da un'altra parte, la notte sarebbe potuto tornare su quel portone? E i rari clienti dove li portava? Nell’androne? La mia mente ricamava troppo spesso su tessuti che per loro natura dovevano rimanere sobri, senza fronzoli. Aveva ragione mio padre, la fantasia mi distoglieva dalle cose importanti. Faceva caldo, aprii la finestra, la strada era deserta, arrivavano rumori di posate sbattute sui piatti, un cozzare di pentole dentro a un lavandino, qualcuno stava gridando al telefono, dall’ appartamento di sopra usciva la voce di Julio Iglesias, “pensami tanto, tanto intensamente…” la canzone che ascoltava spesso mia nonna. Il mio libro di tossicologia analitica era chiuso sulla scrivana, io mi sedetti sulla poltroncina e accesi la televisione. Più tardi sarei andata a trovare la signora del piano di sotto, le avrei portato una scatola di cioccolatini e mi avrebbe raccontato con calma, la storia dei padroni del gatto rosso e della loro croce.

16 commenti:

Stranistranieri ha detto...

Questo racconto è stato sapientemente illustrato dalle immagini. Bravo! Il racconto, che dire? Dietro la storia scarna e banale, è intuibile un "oltre"?

Anonimo ha detto...

La storia può anche essere banale, come lo sono le storie di tutti e di tutti i giorni. E' che... manca qualcosa... no so...

Anonimo ha detto...

Sì, è vero. Manca qualcosa, un non so che.

Florentina

silviodulivo ha detto...

Ma che volevate un omicidio per forza?

Homo Faber ha detto...

Forse per sapere cosa manca bisognerebbe capire cosa c'è. Qualcuno ruba una poltroncina e finisce a guardare la televisione. È il castigo o contrappasso?

silviodulivo ha detto...

Forse pretendete troppo da un racconto? Non so, un'illuminazione che cambi la vostra vita, la spiegazione di tutti i nostri dubbi esistenziali...

Anonimo ha detto...

Allora è finito?

silviodulivo ha detto...

Sì, terza e ULTIMA parte, come avevo scritto nel titolo. Perché, delusi dal finale? O avreste voluto che non finisse mai?

Anonimo ha detto...

Quando è necessario "spiegare", significa che l'opera non è arrivata, quindi ne prendo atto, ringrazio Silvio e tutti quelli che hanno la pazienza di leggere. Rimango un anonimo.

Anonimo ha detto...

Be', non devi prenderla così Anonimo. E' lecito interrogarsi di quel che si legge. Di più: credo che gran parte del piacere della lettura risieda nel domandarsi che ne consegue. Le storie dialogano. Mi sembra che anche la tua storia in qualche modo dialoghi.

Florentina

Anonimo ha detto...

Sì... col cavolo. Nel senso che l'odore di cavolo è un elemento che ritorna spesso nell'autrice, ne avevamo già letto o sbaglio? E' intuibile un "oltre", come si chiede strenistranieri, oltre quel cavolo?

Anonimo ha detto...

Devo dire che gli odori della cucina ristagnanti negli androni e nei corridoi, hanno segnato gran parte del mio peregrinare di casa in casa,quindi segnano anche le mie storie che potrebbero essere ricordate proprio per il cavolo.

Homo Faber ha detto...

Immaginate un testo per il teatro senza l'indicazione dei personaggi a cui toccano le varie battute? Qui è un po' così. Suggerirei ai vari anonimi di siglare gli interventi, tanto per sapere se non è sempre la medesima persona che parla con se stesso.

Anonimo ha detto...

L'Homo Faber sarebbe un ottimo poliziotto di quartiere...
sono io l'anonimo del cavolo, l'altro anonimo è l'autrice...
va bene così?

Homo Faber ha detto...

Stai calmino HV, che non sono io responsabile delle tue crisi d'identità. Per punizione della tua impertinenza vai a leggerti tutto il nuovo post sugli antenati di silviodulivo. Io mi fido del tuo giudizio e me lo risparmio.

silviodulivo ha detto...

Discolacci!