martedì 29 gennaio 2008

San salvi/ 4

Riassunto delle puntate precedenti. Un precario della Pubblica Amministrazione, condannato a vita a lavorare in un ufficio dell'ex-manicomio di Firenze, sogna di essere uno scrittore e cerca materiale relativo all'ospedale psichiatrico come spunto per il suo primo romanzo, pubblicando i propri appunti per i suoi quattro lettori
Nel 1904 fu prodotta una legge che regolerà la materia psichiatrica per gran parte del secolo. Secondo questa legge "debbono essere custodite e curate le persone affette da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescono di pubblico scandalo o non possano essere custodite o curate fuorché nei manicomi". E forse come definizione non era neanche male, per quei tempi. Nella realtà però non si ricorreva all'internamento solo in questi casi estremi. Infatti, nel periodo 1901-1910 entrarono in manicomio più di 8000 persone e all'inizio degli anni '60 SanSalvi consta di 17 reparti e 1642 posti letto (in realtà i ricoverati erano di più). Consideriamo che il manicomio serviva solo la provincia di Firenze. Il soggetto malato, una volta entrato in manicomio, perde ogni diritto civile. Dimesso, è comunque discriminato per sempre. Almeno che non sia ricco e possa permettersi case di cura private, evitando così la perdita dei diritti civili. La funzione predominante della struttura manicomiale è la custodia dei soggetti, secondaria invece è la cura. I locali vengono suddivisi per tipologia di malato: agitati, pericolosi, abili a svolgere un lavoro ecc. Era il giudice, non il medico, non l'ospedale, a permettere la dimissione del malato (stavo per scrivere: detenuto). L'articolo 50 prevedeva che un parente firmasse l'uscita del malato. E chi non aveva parenti? Poteva firmare un amico. Solo che si era diffusa l'idea che se poi il "guarito" commetteva una follia il giudice sarebbe andato a ripescare il firmatario e gliel'avrebbe fatta pagare. Così nessuno firmava e i poveretti rimanevano dentro.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Avevo suggerito a Silvio di mettere a fuoco il quadro politico-culturale che rese possibile il varo della Legge Basaglia (L.180/78 del 13 maggio), perché nulla avviene mai per caso e perché, sia chiaro, non basta una gran mente illuminata per fare una grande riforma. So che questi temi non appassionano molto il nostro amico e neanche i suoi dati anagrafici possono accorrergli in aiuto, allora proverò io, che di quegli anni serbo ricordo vivo, a fare una ricostruzione molto rapida e sintetica di quel periodo affinché possa suggerirci qualche riflessione sui tempi (oscuri) che stiamo vivendo.
La legge fu dunque approvata il 13 maggio del ’78, vale a dire appena quattro giorni dopo il tragico epilogo del sequestro di Aldo Moro per opera delle Brigate Rosse, in un’Italia che grondava sangue dalle ferite, vecchie e nuove, che l’affligevano. Gli anni settanta erano iniziati mentre ancora riecheggiava in Italia il boato della bomba di Piazza Fontana, la strage di innocenti cittadini servì ad inaugurare quella che fu chiamata “strategia della tensione” o “degli opposti estremismi” e sulla quale mai piena luce è stata fatta: frange neofasciste, settori deviati dei servizi segreti (ma quali erano quelli non deviati?) e della CIA organizzavano attentati allo scopo di insinuare nell’opinione pubblica il desiderio di una svolta autoritaria nel nostro Paese, e di aspiranti “golpisti” sono piene le pagine di cronaca di quegli anni. L’obiettivo era di arrestare la forte spinta riformatrice e di rinnovamento dell’intera società italiana che, forse inconsapevolmente, recava in sé la lotta dei lavoratori per l’acquisizione di diritti e tutele sui luoghi di lavoro. Non era una semplice e trucida questione di equilibri di potere ma, io credo, una vera e propria guerra di civiltà (oggi si direbbe così, riferendosi ad altro). Nel settembre del 1973, fra attentati che si sussegivano, sullo sfondo di una crisi economica galoppante, due fatti scossero l’opinione pubblica italiana: l’epidemia di colera che colpì il sud dell’Italia e Napoli in particolare (dice niente la mondezza di oggi?) e il colpo di stato perpetrato dalla CIA per mano del generale Augusto Pinochet in Cile, che mise fine al governo riformista di Unidad Popular guidato da Salvador Allende ( assassinato l’11 settembre: come il giorno dei vampiri). Non dimentichiamo che l’Europa di quegli anni non era certo quella d’oggi e da questa parte della cortina di ferro, che divideva il mondo occidentale dal blocco sovietico, su questa sponda del Mediterraneo, l’Italia democratica rappresentava un’anomalia, circondata com’era da dittature di vario genere: da quelle fasciste del “caudillo” Francisco Franco in Spagna, di Marcelo Caetano in Portogallo, dei “colonnelli” di Giorgio Papadopoulos in Grecia, all’eresia socialista di Tito in Jugoslavia e al “comunismo cinese” di Enver Oxa in Albania. Questo era il quadro che si componeva innanzi al Segretario Generale del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer (il “capo dell’opposizione”, come si direbbe oggi!) verso la fine di quell’estate. Che fare? Domanda fatale che da Lenin in poi rimbombava nell’anima del movimento comunista fin dagli inizi del secolo! Enrico Berlinguer, colpito dalla “sindrome cilena”, come i suoi critici di allora ebbero a dire, scrisse un saggio, pubblicato in tre parti su “Rinascita”, che culminava con la proposta di collaborazione fra le tre maggiori componenti della società italiana, quella cattolica, quella socialista riformista e quella comunista (“compromesso storico”), per trarre il Paese fuori d’ogni pericolo golpista. La proposta non fu raccolta, tanta e tale era la voglia di andare allo scontro frontale (dice niente, anche questo?) da parte dei settori più reazionari della DC, che addirittura scatenarono il loro cavaliere più integralista, Amintore Fanfani, nella crociata contro la legge sul divorzio (fra l’altro, anche lui aveva una situazione “coniugale” un po’ confusa). Nel 1974, il 12 maggio per l’esattezza, si celebra il referendum per abrogare la legge sul divorzio: gli italiani lo respingono e il 29 maggio, a Brescia, in Piazza della Loggia, un’altra bomba fa strage di lavoratori mentre partecipavano ad un comizio sindacale. Nel 1975 il Parlamento approvò la legge sulla maggiore età a 18 anni e questo fece sì che il 15 giugno di quell’anno, alle elezioni amministrative, milioni di giovani elettori(fra i quali io) si aggiungessero al corpo elettorale e riversassero nelle urne la loro voglia di cambiamento. L’anno dopo, il 20 di giugno, il risultato si ripeté alle elezioni politiche anticipate, dopo una durissima campagna elettorale che vide pesantemente scendere in campo, come non avveniva dal 1948, il Vaticano (Paolo VI) e la diplomazia americana (Richard Gardner, in seguito ambasciatore USA in Italia). Ormai gli equilibri erano spostati e non si poteva più governare contro la voglia di cambiamento profondo,in campo sociale, culturale e politico, espresso da milioni di cittadini mentre la situazione economica era devastante e il Paese continuava ad essere insanguinato dalla follia criminale delle Brigate Rosse e dai colpi di coda della reazione fascista. La collaborazione del PCI divenne fondamentale: furono anni di grandi sacrifici per i lavoratori ma anche di grandi aperture e conquiste in campo civile: la legge Basaglia, la legge sull’aborto, la riforma del sistema sanitario che, per la prima volta, garantiva assistenza sanitaria a tutti i cittadini, l’allargamento degli spazi di partecipazione nella gestione delle pubbliche amministrazioni, nella scuola.
Anche se non risolse i nodi strutturali più profondi, che sarebbero tornati al pettine nei decenni successivi, quell’esperienza servì a consegnare agli anni ottanta un’Italia quinta potenza industriale al mondo e, soprattutto, molto più “civile”.
E oggi? Sono passati trent’anni, non siamo riusciti ad avere una legge “civile” sulle unioni di fatto, non siamo riusciti ad avere una legge “civile” sulla fecondazione assistita e abbiamo vietato la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Nel mirino del cecchino clericale c’è oggi la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, e a quando la riapertura dei manicomi?
Che fare?

Homo Cinicus-Nostalgicus

p.s scusate la divagazione ma è per puntualizzare.

« La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d' essere »
(Franco Basaglia)

silviodulivo ha detto...

Grazie.